E se è per questo, pensate alla follia di un’infinità di cucine e stanze da bagno tutte identiche, ma riprodotte in quantità, contro le più efficienti strutture rese possibili dalla cultura delle Città (mense e sale-doccia).
Poco a poco i villaggi, i paesi e le "metropoli" della Terra morirono e vennero inghiottiti dalle Città, e l’antico timore di una guerra nucleare non fece che rallentare di poco questa tendenza. Con l’invenzione dello scudo di forza, del resto, la tendenza si trasformò in vera e propria corsa.
La cultura delle Città permetteva una distribuzione ottimale del cibo, con l’utilizzazione su scala sempre più vasta dei lieviti e delle colture idroponiche. New York City si estendeva su oltre tremila chilometri quadrati di superficie, e l’ultimo censimento rivelava che la popolazione era abbondantemente superiore ai venti milioni. Sulla Terra c’erano circa ottocento Città, la cui popolazione media si aggirava sui dieci milioni.
Ogni Città divenne un complesso autonomo, quasi autosufficiente dal punto di vista economico. Costruiva da sé il suo "tetto", le sue recinzioni e i suoi livelli, sotterranei; divenne una caverna d’acciaio, un’enorme, protetta caverna di cemento e acciaio.
La costruzione procedeva scientificamente. Al centro c’era l’enorme complesso degli edifici amministrativi. Accuratamente orientati fra loro e con il dovuto rispetto all’equilibrio della Città nel suo complesso, sorgevano i settori. I collegamenti fra un settore e l’altro erano costituiti dalle strade celeri e dai nastri locali. In periferia si trovavano le industrie, le colture idroponiche, le enormi vasche per le colture dei lieviti e le centrali energetiche. Attraverso questi veri e propri strati urbani correvano le condutture dell’acqua e gli scarichi delle fogne, e naturalmente sorgevano scuole, negozi, prigioni; la ragnatela era completata dai cavi trasportatori d’energia e dai raggi per le comunicazioni.
Non c’era dubbio che la Città rappresentasse il culmine del processo che aveva portato l’uomo a trionfare sull’ambiente. Non il volo spaziale, non i cinquanta mondi colonizzati che di questi tempi facevano così gli altezzosi: la Città era il vero trionfo del genere umano.
Praticamente nessuno, sulla Terra, viveva fuori delle Città. Fuori non c’era che desolazione e aria aperta, che ben pochi riuscivano a sopportare con un minimo d’equanimità. Naturalmente era necessario conservare degli spazi aperti: c’erano l’acqua che è necessaria agli uomini, il legno e il carbone che erano le materie prime da cui, dopo lunghi processi, si ricavava la plastica, e le riserve naturali di lievito e fermenti. (Il petrolio era finito da molto tempo, ma alcune varietà di lievito ricche d’olio costituivano un buon sostituto.) Nelle zone disabitate fra Città e Città c’erano poi le miniere, e una fetta non trascurabile di terra — più di quanto la gente, di solito, immaginasse — veniva ancora sfruttata per la agricoltura e l’allevamento del bestiame. Non era un sistema efficiente per produrre cibo, ma carne, maiale e grano potevano sempre essere smerciati sul mercato dei generi di lusso o essere esportati.
Per mandare avanti le miniere e le fattorie, per allevare il bestiame e pompare l’acqua erano sufficienti pochi uomini, che si limitavano a supervisionare il lavoro a distanza. I robot facevano il lavoro meglio e richiedevano meno.
Robot! La tremenda ironia era che il cervello positronico era stato inventato sulla Terra, e sulla Terra aveva dato i primi frutti.
Non sui Mondi Esterni. E invece i Mondi Esterni si erano sempre comportati come se i robot fossero un prodotto tipico della loro cultura.
In un certo senso, tuttavia, il culmine del sistema economico basato sui robot era stato raggiunto sui Mondi Esterni; sulla Terra ci si era limitati a usarli nelle miniere e nelle fattorie. Solo nell’ultimo quarto di secolo, su insistenza degli Spaziali, gli uomini meccanici si erano lentamente infiltrati nelle Città.
Le Città erano un bene prezioso, e tutti, anche i medievalisti, sapevano che non esisteva un ragionevole sostituto. L’unico guaio era che non sarebbero rimaste efficienti a lungo: la popolazione del pianeta cresceva e un giorno o l’altro, nonostante l’alto livello produttivo delle Città, le calorie pro capite sarebbero scese sotto il livello di sussistenza.
E il peggio era che gli Spaziali, discendenti degli antichi emigranti dalla Terra, vivevano nel lusso dei loro mondi sottopopolati, governati dai robot, nello spazio profondo. Gli Spaziali erano cinicamente decisi a mantenere i privilegi che derivavano dalla bassa densità di popolazione dei pianeti, e quindi facevano di tutto per controllare le nascite e tenere alla larga gli immigranti dalla Terra sovraffollata. E questo…
Ma ecco Spacetown!
Fu l’inconscio di Baley ad avvertirlo che si stava avvicinando al settore di Newark. Se fosse rimasto dov’era ancora un po’, si sarebbe trovato sulla strada per il settore di Trenton, a sudovest, attraverso il cuore della calda e umida terra dei lieviti.
Era una questione di tempismo. Ci voleva un tanto per scendere la rampa, un tanto per farsi largo fra i passeggeri in piedi che brontolavano, un tanto per scivolare oltre il divisorio e verso l’uscita. E infine, un tanto per immettersi sui nastri deceleranti.
Quando l’ebbe fatto, si trovò puntualmente sullo stazionario. Non aveva calcolato consciamente i passi necessari e se ci avesse provato avrebbe sbagliato.
Baley si ritrovò nel consueto semi-isolamento. Solo un poliziotto era con lui sullo stazionario, e, a parte il ronzio della strada celere, il silenzio metteva quasi a disagio.
Il poliziotto si avvicinò e Baley esibì il distintivo con impazienza. L’altro alzò una mano per lasciarlo passare.
Il corridoio si restringeva e curvava bruscamente tre o quattro volte. C’era un evidente proposito: le folle dei terrestri non potevano raccogliervisi facilmente, e l’idea di una carica era impossibile.
Baley ringraziò il cielo che l’incontro con il suo collaboratore fosse previsto all’esterno di Spacetown; l’idea di un esame medico non gli andava affatto, nonostante la cortesia per cui gli Spaziali andavano famosi.
Uno Spaziale era fermo davanti alle porte che immettevano all’aperto e alle cupole di Spacetown. Era vestito alla maniera terrestre, con calzoni stretti alla vita, abbondanti al polpaccio e una striscia colorata lungo la cucitura delle gambe. Indossava una camicia di normalissimo textron, con il collo aperto, le cuciture sostituite da cinture-lampo e i polsini a sbuffo. Ma era uno Spaziale. C’era qualcosa nel modo in cui stava in piedi, in cui teneva dritta la testa, qualcosa nell’espressione calma e immobile del volto senza emozioni e dagli zigomi alti, che lo distingueva nettamente dai terrestri. I capelli corti, color del bronzo, erano tirati all’indietro senza scriminatura.
Baley si avvicinò con circospezione e disse: «Sono l’agente investigativo Elijah Baley, Dipartimento di Polizia della Città di New York. Qualifica C-5».
Mostrò le credenziali e continuò: «Ho ricevuto istruzioni per incontrare R. Daneel Olivaw all’Accesso di Spacetown». Guardò l’orologio. «Sono un poco in anticipo. Posso chiedere di venire annunciato?»
Dentro sentiva un senso di freddo. Era abituato, in un certo senso, ai robot in uso sulla Terra, ma i modelli Spaziali erano certo diversi. Non ne aveva mai visti, ma sulla Terra niente era più comune delle storie sui terribili, formidabili automi che lavoravano con sovrumana energia sui Mondi Esterni. Lije si sentì battere i denti.
Lo Spaziale, che l’aveva ascoltato educatamente, disse: «Non sarà necessario. La aspettavo».
Baley tese automaticamente la mano, poi l’abbassò. Abbassò pure la mascella, che sembrava diventata lunghissima. Non riuscì a dire niente, le parole si gelarono.
Lo Spaziale disse: «Mi presento: sono R. Daneel Olivaw».