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«Come? Forse c’è un errore. Credevo che l’iniziale…»

«Nessun errore, sono un robot. Non gliel’hanno detto?»

«Me l’hanno detto.» Baley si passò una mano umida fra i capelli e li lisciò inutilmente. Poi, finalmente, la tese. «Mi dispiace, signor Olivaw. Non so a che diavolo stessi pensando. Mi chiamo Elijah Baley e sono il suo collega.»

«Bene.» La mano dell’automa strinse la sua con calore e leggerezza, in modo amichevole. Poi la lasciò. «Mi sembra di individuare in lei una certa apprensione. Posso chiederle di essere franco? In un rapporto come il nostro sarà meglio chiarire subito i punti importanti. E a proposito, sul mio mondo è normale che due colleghi si diano del tu. Spero che l’usanza non contrasti con le vostre abitudini.»

«È solo che, vede, lei non sembra un robot» disse Baley con angoscia.

«Questo la disturba?»

«Non dovrebbe, D… Daneel. Sono tutti come te, sul tuo mondo?»

«Ci sono differenze individuali, Elijah, proprio come fra gli uomini.»

«I nostri robot… Be’, lo capisci subito che sono robot. Tu sei identico a uno Spaziale.»

«Ah, vedo. Ti aspettavi un. modello primitivo e sei sorpreso. Ma è logico che la mia gente usi un automa dalle pronunciate caratteristiche umanoidi in un caso come questo. Dobbiamo evitare ogni effetto spiacevole, non trovi?»

Era certo così. Se un robot "primitivo" si fosse aggirato con troppa disinvoltura nella Città avrebbero potuto nascere guai.

Baley disse: «Hai ragione».

«Allora andiamo, Elijah.»

Tornarono verso la strada celere. R. Daneel capì lo scopo dei nastri acceleranti e se ne servì con notevole bravura. Baley, che inizialmente era andato piano, fu costretto ad aumentare la velocità e la cosa lo irritò.

Il robot si teneva al passo e non mostrava nessuna difficoltà. Baley si chiese addirittura se R. Daneel non procedesse più lentamente di quel che poteva. Arrivò alle interminabili carreggiate della strada celere e saltò a bordo con spericolatezza; l’automa lo seguì facilmente.

Baley era rosso. Deglutì un paio di volte e disse: «Starò quaggiù con te».

«Quaggiù?» L’automa, che non sembrava fare caso né al rumore né al ritmico ondeggiare della piattaforma, disse: «Forse le mie informazioni sono sbagliate, ma credevo che la qualifica C-5 desse diritto a un sedile ai livelli superiori, in certe fasce orarie.»

«Infatti è così. Io posso andare a sedermi, tu no.»

«Perché no?»

«L’hai detto tu, Daneel. Ci vuole il C-5.»

«Lo so benissimo.»

«E tu non ce l’hai.» Parlare era difficile: al livello inferiore, meno protetto dal rivestimento di vetro, il sibilo dell’aria era più forte. Baley, inoltre, era comprensibilmente ansioso di mantenere la voce bassa.

R. Daneel ribatté: «Perché non dovrei avere il C-5? Sono il tuo collaboratore, e a quanto mi è stato detto ho la stessa qualifica».

Da una tasca della camicia trasse un cartoncino rettangolare dall’aria genuina. Il nome segnato sul rettangolo era Daneel Olivaw, senza l’iniziale discriminante. La qualifica era C-5.

«In tal caso vieni su» disse Baley, piatto.

Una volta seduto Baley guardò dritto davanti a sé, pieno di rabbia verso se stesso e fin troppo consapevole del robot seduto accanto a lui. Era stato colto in contropiede due volte: la prima per non aver riconosciuto R. Daneel come automa e la seconda per non aver immaginato che R. Daneel doveva avere una qualifica pari alla sua. E questa era mancanza di logica.

Il guaio è che Baley non era l’investigatore dei miti popolari: non era incapace di sorpresa e imperturbabile d’aspetto, non era adattabile all’infinito e non possedeva un cervello che funzionava come la folgore. Non aveva mai pensato d’esserlo, ma era la prima volta che gli dispiaceva.

E gli dispiaceva perché R. Daneel Olivaw, al contrario, sembrava la perfetta incarnazione di quel mito.

Per forza: era un robot.

Baley cominciò a cercare di giustificarsi. Era abituato agli automi da ufficio, come R. Sammy, e quindi si era aspettato una creatura con la pelle di plastica dura e lucida, dal colore quasi cadaverico. Si era aspettato un’espressione fissa in un’eterna smorfia di sciocco buonumore. Si era aspettato movimenti a scatto e insicuri.

R. Daneel non era niente di tutto questo.

Baley arrischiò un’occhiata rapida e furtiva all’automa che gli sedeva a fianco. R. Daneel si girò simultaneamente per incrociare il suo sguardo e fare un cenno solenne con la testa. Quando aveva parlato le labbra si erano aperte e chiuse con naturalezza, non erano rimaste socchiuse come quelle dei robot terrestri. E a Baley era parso d’intravvedere una lingua articolante.

Pensò: "Perché se ne sta seduto così calmo? Lo scenario deve essere completamente nuovo, per lui. E poi rumori, luci, folla!".

Baley si alzò, sfiorò R. Daneel e disse: «Seguimi!».

Via dalla strada celere, giù verso i nastri deceleranti.

Baley pensò: "Dio mio, che dirò a Jessie?".

La vista dell’automa aveva allontanato quel pensiero dalla sua mente, ma ora ci tornava con terribile urgenza; stavano decelerando, e l’arteria locale li avrebbe presto portati nelle fauci del Lower Bronx. Il settore di Baley.

Disse: «Daneel, tutto quello che vedi è un unico edificio. L’intera Città, con i suoi venti milioni di abitanti, è un gigantesco blocco senza interruzioni, con le strade celeri che lo percorrono a cento chilometri all’ora. Ci sono quasi quattrocento chilometri di corsie veloci; per non parlare delle centinaia e centinaia di strade locali».

Fra poco, Baley pensò, mi vanterò di quante tonnellate di lievito consuma ogni giorno la Città di New York e di quanti metri cubi d’acqua beve. E quanti megawatt per ora producono le pile atomiche.

Daneel disse: «Ho ricevuto queste e altre informazioni insieme alle istruzioni».

Baley pensò: "Probabilmente sa tutto del nostro cibo, le nostre bevande e la nostra situazione energetica. Perché tentare di impressionare un robot?".

Si trovavano sulla 182a Strada Est, e fra meno di duecento metri avrebbero trovato i montacarichi che servivano gli strati di appartamenti del settore. Fra gli altri, quello di Baley.

Era sul punto di dire "Da questa parte", quando fu bloccato da un gruppo di persone che si accalcavano davanti alla porta d’energia di uno dei negozi che si aprivano al pianoterra del settore.

Baley chiese alla persona più vicina che cosa succedesse, e per farlo sfoderò automaticamente un tono autoritario.

L’uomo a cui si era rivolto, che stava in punta di piedi, rispose: «Sia dannato se lo so. Mi trovavo qui per caso».

Qualcuno disse, eccitato: «Hanno portato quei maledetti R. anche qui! Penso che cercheranno di sbolognarceli. Dio, come ne farei a pezzi uno volentieri!».

Baley dette un’occhiata nervosa a Daneel, ma se questi aveva capito il senso della frase non lo diede assolutamente a vedere.

Baley si fece largo tra la folla. «Fatemi passare, fatemi passare. Polizia!»

Gli fecero largo, e Baley sentì varie frasi smozzicate alle sue spalle.

«… farli a pezzi, bullone per bullone. Spaccargli le giunture lentamente…» Qualcuno rideva.

Baley fece una valutazione a freddo: la Cittàera il culmine dell’efficienza, ma chiedeva parecchio ai suoi abitanti. Chiedeva loro di assoggettarsi a una ferrea routine e di piegare le esigenze individuali a un controllo rigoroso, scientifico. Di tanto in tanto le forze represse esplodevano.

Ricordò i disordini intorno alla Barriera.

Motivi per odiare i robot ne esistevano certamente. Uomini che si trovavano di fronte alla prospettiva del declassamento dopo una vita di sacrifici (e che, quindi, sarebbero scesi al livello del minimo indispensabile a sopravvivere, se pure ce l’avrebbero fatta) non si potevano biasimare quando se la prendevano con gli automi. Era il minimo che ci si potesse aspettare, e i robot erano un bersaglio ideale, concreto.