R. Daneel rifletté, poi scosse la testa. «Credo che tu abbia torto, collega Elijah. Le mie istruzioni sul carattere dei terrestri dicono che, a differenza degli abitanti dei Mondi Esterni, sono inclini ad accettare l’autorità. Questo, a quanto sembra, è il risultato del vostro modo di vivere. Un uomo che rappresenti l’autorità con sufficiente fermezza basta a sgominare una folla, e io l’ho dimostrato. Il tuo desiderio di chiamare la squadra anti-dimostranti è solo una espressione, credimi, del bisogno istintivo di un’autorità superiore che prenda in mano la situazione e ti tolga la responsabilità. Sul mio mondo, lo ammetto, quello che ho fatto sarebbe stato del tutto ingiustificato.»
La faccia di Baley era rossa dall’ira. «Se ti avessero riconosciuto per un robot…»
«Ero certo che non sarebbe successo.»
«In ogni caso ricordati che sei un robot. Nient’altro che un robot. Soltanto un robot… Come i commessi nel negozio di scarpe.»
«Ma questo è ovvio.»
«E che non sei umano.» Baìey si sentì sconfinare nella crudeltà contro il suo volere.
R. Daneel sembrò riflettere sulle ultime parole, poi disse: «La differenza fra uomini e robot non è così marcata, credo, come quella fra esseri intelligenti e meno intelligenti.»
«Forse sul tuo mondo» rispose Baley. «Non sulla Terra.»
Guardò l’orologio e si rese conto con stupore di avere un’ora e un quarto di ritardo. Sentiva la gola secca, e ad asciugargliera era il pensiero che R. Daneel aveva vinto il primo round, in una situazione nella Quale lui si era sentito del tutto impotente.
Penso al giovane Vince Barrett, il ragazzo rimpiazzato da R. Sammy. E a se stesso, Elijah Baley, che R. Daneel poteva rimpiazzare. Per Giosafatte, suo padre almeno era stato declassato dopo un incidente che aveva causato danni, ammazzato persone; forse aveva veramente sbagliato, Baley non sapeva. Ma pensa se l’avessero rimpiazzato con un automa scienziato. Se l’avessero privato della qualifica solo per quella ragione. Non poteva farci niente.
Disse, sbrigativo: «Adesso andiamo. Devo portarti a casa».
R. Daneel riprese: «Vedi, è improprio fare distinzioni capziose tra gli esseri, a parte il fattore intell…».
Baley alzò la voce. «Va bene, l’argomento è chiuso. Jessie ci aspetta.» Si diresse al più vicino convoglio di settore. «Sarà meglio che la chiami e la avverta che stiamo arrivando.»
«Chi è Jessie?»
«Mia moglie.»
"Per la valle di Giosafatte" pensò Baley. "Sono dell’umore giusto per affrontare Jessie."
IV
Presentazione di una famiglia
Era stato il suo nome ad accendere la fantasia di Elijah Baley, quando l’aveva conosciuta alla festa di Natale dello ’02. Si trovavano ai due lati opposti di una coppa di punch; lui aveva appena finito le scuole e aveva ottenuto il primo lavoro per conto della Città. Si era trasferito da poco nel settore e viveva in un angolo da scapolo nella Stanza Comune 122 A. Non male, come angolo da scapolo.
Lei era quella che distribuiva il punch. «Mi chiamo Jessie» si presentò. «Jessie Navodny. Non ti conosco.»
«Baley» rispose lui. «Lije Baley. Mi sono appena trasferito nel settore.»
Prese il bicchiere di punch e sorrise macchinalmente. Lei sembrava una persona allegra e amichevole, così le rimase vicino. Lije era nuovo, ed è deprimente partecipare a una festa dove tutti si raccolgono in capannelli e chiacchierano fra loro ma nessuno ti bada. Più tardi, quando avesse bevuto abbastanza, le cose sarebbero andate meglio.
Nel frattempo rimase vicino alla coppa del punch, osservando la gente che andava e veniva bevendo.
«Ho dato una mano a preparare il punch» disse all’improvviso la ragazza. «Posso garantire. Ne vuoi un altro po’?»
Baley si accorse che il bicchiere era vuoto. Sorrise e disse: «Sì».
La ragazza aveva una faccia ovale e non proprio perfetta, soprattutto a causa del naso largo. Il vestito che indossava era modesto e i capelli castani erano intrecciati ad anelimi sulla fronte.
Bevve anche lei un altro punch e Lije si sentì meglio.
«Jessie» disse, assaporando il nome con la lingua. «È carino. Ti dispiace se ti chiamo così, senza tante formalità?»
«Certo, se ti fa piacere. Sai di che cos’è il diminutivo?»
«Di Jessica?»
«Non indovineresti mai.»
«Non riesco a pensare ad altro.»
Lei rise e disse, solennemente: «Il mio nome completo è Jezebel».
Fu questo a impressionare Lije. Posò il bicchiere e le chiese: «No, veramente?».
«Lo giuro, non sto scherzando. Jezebel. È il nome che compare su tutti i documenti. Ai miei genitori piaceva il suono.»
Ne era orgogliosa, anche se al mondo non c’era mai stata una Jezebel meno credibile.
Baley disse, serio: «Io mi chiamo Elijah. Il nome per intero, si capisce».
Lei non batté ciglio.
Lui riprese: «Elia era il grande nemico di Jezebel, o Gezabel».
«Sul serio?»
«Certo. Nella Bibbia.»
«Guarda, non lo sapevo. È divertente, non credi? Spero che tu non sarai mio nemico nella vita reale.»
Fin dall’inizio fu chiaro che non sarebbe stato così. Il fortuito assortimento dei nomi la fece apparire agli occhi di Lije come molto più che una ragazza simpatica al banco del punch; e in seguito imparò ad apprezzarne il buonumore, la tenerezza e l’aspetto fisico. La cosa che più gli piaceva in lei era il buonumore: la sua visione cinica della vita richiedeva un antidoto.
Quanto a Jessie, sembrava non far caso ai suoi musi lunghi.
«Bontà del cielo» diceva «ma perché te ne vai in giro con quella faccia da limone spremuto? Non ti rende giustizia, ma del resto se ridessi sempre, come me, non ci sopporteremmo. Forse è meglio che rimani come sei: mi eviterai di sciogliermi in un sorriso.»
Lei, a sua volta, aveva aiutato Lije a non andare a picco. Lije fece richiesta di un piccolo appartamento per Coppie e ottenne un’imprevista assegnazione, a patto che si sposassero. Mostrò il documento a Jessie e le chiese: «Verresti ad abitarci con me? Mi piacerebbe vivere in un posto più decente che un’alcova per Scapoli».
Forse non era la proposta più romantica del mondo, ma a Jessie piacque.
Baley ricordava una sola occasione in cui l’abituale buonumore di Jessie l’aveva abbandonata completamente, e anche in quel caso c’entrava il nome. Fu durante il primo anno di matrimonio, quando il bambino non era ancora nato (per l’esattezza venne concepito in quei giorni; il loro Q.I., l’attestato genetico e la posizione di Lije nel Dipartimento davano loro diritto a due figli, di cui il primo poteva essere concepito nel primo anno di matrimonio). Il bambino, dunque, era in arrivo; in seguito Baley pensò spesso che l’insolita irritabilità di Jessie fosse dovuta alle sue condizioni.
Lei era un po’ scura perché Baley faceva sistematicamente tardi.
Disse: «Non è bello andare in mensa da sola, la sera».
Baley era stanco e depresso. Rispose: «Perché no? Potresti incontrarci qualche simpatico vicino».
Lei si scaldò immediatamente. «E non temi che possa sedurlo, Lije Baley?»
Forse fu solo perché era stanco. Forse perché Julius Enderby, un vecchio compagno di scuola, aveva fatto un altro balzo sulla scala delle qualifiche e lui no. Forse fu perché lo seccava vedere Jessie che tentava di farsi passare per la megera biblica di cui portava il nome, e che mai, mai avrebbe potuto emulare.
In ogni caso, disse pungente: «Credo che tu possa, ma non ci proverai. Perché non dimentichi quél nome e cerchi di essere te stessa?».
«Sarò quella che mi pare e piace.»