La donna raccolse la veste piegata, sibilò qualcosa all’uomo che alzò la mano come se la sgridasse e filò via, con la stoffa raccolta fra le braccia come se fosse un bambino addormentato. Poi si voltò e sibilò qualcosa a Forzon facendogli un cenno. Egli balzò da una parte per evitare la bambina e di corsa la seguì.
Nella stanza attigua, gli indicò una scaletta verticale e gli venne dietro mentre saliva, tenendo stretta la veste con un braccio. Di là l’uomo aveva aperto la porta su un coro stridente di voci rabbiose. Forzon si ritrovò nell’oscurità, fece alcuni passi prudenti, esitò, la donna gli passò davanti sibilandogli qualcosa di pressante. Egli inciampò in un pagliericcio, ritrovò l’equilibrio e la seguì.
Udì un leggero cigolio e la donna gli diede uno spintone in avanti. Batté il capo e si chinò per attraversare un’apertura nella parete. Poi di nuovo il cigolio.
Tastò tutt’intorno, alla cieca. Si trovava in uno spazio angusto, vicino all’arco del tetto. Non poteva stare né sdraiato né in piedi. Si mise quindi a sedere con la gambe incrociate, appoggiato al muro e attese. Ma la posizione rannicchiata sul pavimento gli divenne presto intollerabile, sebbene nella calma dell’oscurità la sua tensione cominciasse a diminuire. Le voci, giù di sotto, gli pervenivano affievolite, troppo distanti per sembrare minacciose. Alla fine il tonfo della porta sbattuta riportò il silenzio. Forzon si arrese alla stanchezza e si addormentò.
Si svegliò con le braccia e le gambe doloranti, i muscoli intorpiditi, infreddolito e affamato. Ma non notò questi inconvenienti. Una rabbia soverchiante lo divorava. Rabbia contro Rastadt, Wheeler, Ann Cory, Gurnil B-627, l’ERI, e il paese di Kurr.
Il suo nascondiglio era fiocamente rischiarato da una larga V rovesciata, tagliata ad angolo leggermente discendente nel muro. Nei dipinti, aveva erroneamente preso quei segni per degli ornamenti architettonici; ma questo, evidentemente, aveva anche uno scopo funzionale, quello di lasciare entrare un po’ di luce e d’aria, pur tenendo fuori buona parte delle intemperie. Si levò in ginocchio e sbirciò all’esterno. Vide solo un angolo molto comune di campagna, un tratto di suolo agricolo impoverito, strozzato fra la costa e le sterili colline.
«Sarebbe questa, la terra favolosamente ricca del Kurr?» esclamò.
Cominciò a guardarsi intorno. Si trovava in uno stretto stambugio chiuso su tre lati da pareti dritte e sul quarto dal muro esterno della casa, fortemente incurvato. Il tetto formava un arco proprio sul suo capo. Le pareti sembravano compatte e non riuscì a capire come fosse entrato lì, finché, tastando lungo la base di una parete, non scoprì che un’asse stava su un perno molto alto. Il peso stesso dell’asse la manteneva a posto e premendo su di essa, dall’altra stanza, non la si sarebbe mossa, a meno di esercitare la spinta molto in alto.
Tutto ciò era molto interessante ma non particolarmente utile. Continuava ad essere affamato, indolenzito, infreddolito. E rabbioso.
Il tempo passava. Si immerse in una diligente rassegna di tutti gli avvenimenti da quando era arrivato a GurniI; ma, per quanto ricordava, nessun fatto gettava la minima luce sull’incredibile situazione in cui si trovava: la base campale della Squadra B che non c’era, i Kurriani che non avevano né la lingua né il naso previsti, il mistero della sua veste sacerdotale, la condotta del coordinatore.
L’asse scricchiolò e ricadde a posto con un tonfo attutito. Nel suo nascondiglio era stata introdotta una ciotola cilindrica e profonda. Un solo arnese per mangiare, munito di punte, sporgeva dall’alto. Forzon annusò famelicamente, ficcò l’arnese nella ciotola, infilzò qualcosa. Era una pallottolina di pane con una crosta spessa ed elastica. Ai colpi successivi pescò dei pezzi di carne e di verdura; mangiando sorbiva un brodo fumante, denso come una salsa. Aveva uno strano sapore agrodolce, ma lo sorbiva con piacere.
Quando ebbe finito, spinse in su l’asse oscillante e strisciò fuori. Il piano superiore era diviso in due locali da un’ampia parete che conteneva ripostigli e, nascosto contro il muro esterno, il suo nascondiglio. Forzon fece il giro di entrambi i locali, sbircando attraverso le V rovesciate. Il villaggio, pacificamente adagiato nella valle sottostante, pareva deserto. Così pure la strada che aveva seguito la notte prima, appena segnato dall’intrico delle carreggiate coperte d’erba. Una dipendenza sorgeva a breve distanza dal retro della casa, di cui era una ripetizione in miniatura. Un animale d’aspetto strano posava il muso enorme e brutto su una mezza porta e fissava placidamente il paesaggio vacuo. Tutto pareva cupamente sereno e privo d’interesse.
La donna doveva avere udito che si era mosso. Si arrampicò spaventata sulla scaletta. Ne seguì una deludente pantomima nella quale Forzon si tirava gli abiti e tentava di far capire alla donna che desiderava qualcosa per vestirsi. Sulle prime la donna lo osservò istupidita. Anche quando Forzon ebbe la certezza che l’aveva capito, lei rimase cupamente indifferente. Finalmente, con molta riluttanza si diresse in un angolo della stanza, quello opposto al nascondiglio, alzò un’asse e gli offrì… la sua veste.
Egli rifiutò con sonore proteste agitando il braccio, il che fece salire il marito di corsa, L’uomo indossava un camicione lungo sino al ginocchio, senza maniche, con un ampio collare che copriva le braccia come una mantellina. Sotto la camicia portava una gonna lunga sino alla caviglia. Forzon gli toccò le vesti e rifece la sua pantomima finché finirono per capire e gli portarono degli abiti.
Lo lasciarono ed egli, dopo essersi vestito, si accovacciò sul pavimento a guardare il villaggio attraverso una feritoia. Per circa un’ora o più affrontò con decisione la realtà della sua situazione e quand’ebbe finito non era approdato a nulla: non poteva rimanere dov’era, continuava a non avere alcun posto dove andare, e non gli veniva in mente come potesse rimediare.
Scese cautamente la scala a pioli. La bambina nuda giocava in una rete che pendeva dal soffitto. Lo guardò spalancando gli occhi, con una timidezza che inteneriva e cinguettò qualcosa quando lui le fece delle boccacce. La donna era al lavoro nei campi, guidando la bestia sgraziata che era attaccata a un attrezzo agricolo. L’uomo non si vedeva da nessuna parte.
I quadri richiamarono l’occhio di Forzon, che, spostata una panca nell’angolo della stanza, si sedette a esaminarli con ammirazione. Pittura di tale qualità, in una semplice fattoria!
Erano solo sette quadri. Uno, assai vecchio, con urgente bisogno di un restauro, era il ritratto di un uomo e di una donna. Un altro, un paesaggio in cui compariva la nota forma della casa a fungo, era probabilmente un vecchio dipinto di quella fattoria. Gli altri erano ritratti di persone o di gruppi familiari; il più recente, quello degli attuali padroni di casa, era così fresco che la pittura non pareva neppure asciutta. I colori erano trattati con una tecnica ardita, ma decisamente inferiore, e Forzon temette che l’alto livello della pratica pittorica kurriana, che aveva prodotto i quadri più antichi, stesse declinando, soffocato, forse, da monarchi oppressori.
Comunque… dei simili dipinti in un simile luogo! E Forzon considerò con uno stupore reverenziale ciò che si poteva pensare di una cultura in cui ogni agricoltore possedeva una galleria di quadri privata.
Il tempo passava. Un cigolio lontano venne a interrompere la sua fantasticheria. La bambina lo guardava silenziosamente. La posizione del sole diceva che era il pomeriggio inoltrato. Aveva sprecato varie ore su sette dipinti! Scontento di sé, li scrutò un’ultima volta, cercando qualcosa che spiegasse quella sua fuga ingiustificata dalla realtà, ed esclamò: «I nasi!»
Le proporzioni dei nasi, in quei ritratti, erano normali. Come lo erano quelle dei nasi nei ritratti visti alla base. Sapeva che quei dipinti provenivano dal Kurr, e tuttavia si era lasciato affibbiare quel grugno grottesco che doveva farlo sembrare un Kurriano!