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Alla morte notturna, pensò Forzon, quando s’incamminarono per le strade buie. Le case incombenti intensificavano la tetraggine generale, non c’era circolazione di veicoli, e l’irreale silenzio creava un’atmosfera tesa e quasi funerea. La luce delle torce accese in qualche casa traspariva debolmente attraverso le finestre senza persiane dei piani superiori, ma serviva poco ai pedoni che percorrevano le cavernose strade sottostanti.

In rari punti, una torcia ardeva, infilata in un braccio a muro, molto più in su delle teste dei passanti. «Taverne» disse Ultman. «Hanno l’obbligo di tenere acceso un lume fintanto che rimangono aperte. Entriamo?»

Discesero una lunga rampa di pietra e arrivarono in uno scantinato. Il proprietario, o mescitore, lanciò un grido di gioia riconoscendo Ultman e gli corse incontro per dargli delle robuste gomitate, che costituivano la stetta di mano kurriana. Ultman restituì le gomitate, entrambi risero e Ultman gli disse che si sarebbero fermati a bere uno o due bicchieri. Il che meravigliò Forzon che non aveva ancora visto alcun recipiente di vetro nel paese.

I bicchieri erano dei congegni a tempo: un mezzo globo di vetro trasparente, in un telaio di legno, con un beccuccio allungato nella parte inferiore. Sedettero a un tavolo tondo nel centro del quale era inserita una grande ciotola piena di liquido. Il mescitore con un mestolo, riempì i loro bicchieri di un liquido che lentamente ma continuamente si scaricava ribollendo nella ciotola centrale, e ne potevano bere a piacimento finché i bicchieri non fossero vuoti.

Riempirono i loro bicchieri individuali, e Forzon assaggiò la sua bibita con diffidenza, trattenendo una smorfia. Era birra, ma una birra molto amara.

«Immaginavo che non vi sarebbe piaciuta» disse Ultman «ma dovete assaggiare di tutto, anche per misura di prudenza. Altrimenti potreste trovarvi in qualche situazione che vi obblighi a passare una notte a bere questa mistura.»

«A voi piace?»

Ultman alzò le spalle. «Ci sono abituato.»

Cominciò a conversare con l’uomo che stava al tavolo accanto al suo. Anche quello era un commerciante di prodotti agricoli. Forzon si guardava intorno e studiava l’ambiente. Contrariamente al pozzo umido di Ultman, questa cantina era lussuosamente rifinita. Dei pilastri di legno grezzo sopportavano pesanti traverse che a loro volta sostenevano le piccole travi del soffitto.

Forzon si persuase subito in merito alla solidità della costruzione, ma aveva forti dubbi sulla conduzione economica della taverna. Pochi ma svelti bevitori avrebbero potuto mandare l’oste in rovina in una sola serata.

I clienti però non erano dei bevitori. Sorseggiavano a radi intervalli, conversando o, se erano soli, contemplavano ipnotizzati i loro bicchieri ove ribolliva la birra oppure le mobili scintille dei lumi murali riflesse nelle profonde pozze di birra o di vino. L’oste era sempre presente, pronto a intervenire al momento in cui un bicchiere si svuotava. Dava un colpetto sulla spalla del commensale, il cliente buttava giù l’ultimo sorso con un’occhiataccia all’oste, e poi pagava per un altro bicchiere oppure lasciava la taverna.

Entrò un suonatore di torril, ansante per aver disceso la rampa portando il suo pesante strumento. Suonò un breve brano di musica, poi si guardò intorno, e rimise in spalla il suo torril.

«Nessuno lo ha pagato» disse Ultman.

«Lo pagherò io» disse Forzon facendo per alzarsi.

«È meglio di no. Non dev’essere molto in gamba, altrimenti l’oste gli avrebbe offerto da bere.»

Un pittore passò fra i tavoli con un fascio di dipinti sotto il braccio e prese appuntamenti per i giorni successivi. Un altro suonatore di torril entrò. Quando smise di suonare qualcuno gli gettò una monetina. Gliela ributtò indietro indispettito e uscì. I loro bicchieri erano vuoti per la terza volta, e Ultman indicò col capo la porta.

A poca distanza da quella taverna, la strada sbucava su una via più larga, sfolgorante di torce in entrambe le direzioni. «Il Viale delle Taverne» spiegò Ultman. «Se ne trovano sparse in tutta la città, ma qui sono più numerose di qualsiasi altro posto. Ne proviamo un’altra?»

Ne visitarono quattro, in rapida successione, assaggiando una decina di birre e vini diversi. I suonatori di torril entravano e uscivano in continuazione. Finalmente uno si fermò, era ovviamente un bravo artista, e suonò un pezzo dopo l’altro sotto una pioggia di monetine. Quando cessò di suonare per riposarsi, Forzon si accorse che i suoi vicini di tavolo erano un allegro gruppo che discuteva i meriti dei migliori suonatori di torril. Ascoltò deliziato, poi si accorse con disgusto che Ultman nel frattempo aveva incontrato un altro produttore agricolo e stava discutendo di tuberi con lui. Il suonatore di torril imbracciò nuovamente lo strumento e suonò finché la torcia esterna continuò ad ardere. A quel momento, l’oste si oppose alle richieste dei commensali di accenderne un’altra, e mandò via tutti.

La maggior parte delle taverne erano chiuse, e i due arrivarono tentoni fino alla cantina di Ultman, camminando nell’oscurità quasi totale. Forzon non capiva se il suo leggero stato d’ubriachezza fosse dovuto al vino o alla musica del torril.

«Quando siamo usciti questa notte, pensavo che mi avreste portato a conoscere qualcuno della Squadra B» disse, brancolando nello scendere lungo la rampa della casa di Ultman.

Ultman si fermò. «E con chi credete di essere stato tutta la notte? Avete incontrato almeno una dozzina di agenti della Squadra B.»

«Oh!» disse Forzon, allibito.

«Alcuni dei principali desiderano scambiare due parole con voi; ma non c’è premura. Vogliono probabilmente sapere se vi è venuta qualche idea.»

Forzon trattenne un sorriso. «Per convertire il Kurr alla democrazia?»

«Penso di sì. È loro compito preoccuparsi di queste cose. D’altra parte… presumo sia anche vostro compito, come sovrintendente, di preoccuparvene.»

Forzon non aveva mai considerato le sue responsabilità sotto questo profilo, cioè come un obbligo di preoccuparsi. Si addormentò quella sera meno facilmente di quanto avesse previsto.

CAPITOLO VII

Il tambureggiare sordo dei tuberi rovesciati sul carretto di Ultman svegliò Forzon all’alba. Si strinse la te§ta che gli scoppiava e gemette: «Ma è proprio necessario?»

«Devo fare tutto ciò che sembra naturale» disse Ultman, con nefando buon umore. «Un negoziante di prodotti agricoli che si è appena portato a casa merce fresca, non può incrociare le braccia e aspettare che il suo prodotto cominci a marcire per smerciarlo. Io devo visitare i miei migliori clienti questa mattina stessa.»

Forzon si voltò dall’altra parte, risentito, e si coprì le orecchie. Ultman caricò il carrettino, affumicò la stanza mal ventilata facendosi scaldare un boccale di cril, e infine, dopo un brusco consiglio a Forzon di non mettere fuori il naso fino al suo ritorno, si avviò cigolando su per la rampa e uscì.

Forzon non aveva alcuna intenzione di farsi vedere fuori. Forse più tardi avrebbe meditato sul principio per cui non si poteva modificare d’un filo il normale programma di un agente della Squadra B, neppure per riguardo a un sovrintendente con i postumi di una sbornia; ma per il momento si contentò di avvolgersi in un manto di silenzio e cercare di dormire. Si assopì pensando che l’entrata nascosta della galleria di soccorso era solo a un braccio di distanza e che tuttavia non avrebbe assolutamente avuto il tempo di usarla in caso di necessità. Non c’erano serrature alla porta e se i ruff del re fossero arrivati improvvisamente per catturarlo, lo avrebbero preso prima ancora che fosse del tutto sveglio. Anche se, per miracolo, avesse raggiunto la galleria, non sapeva dove rifugiarsi una volta arrivato in fondo.