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Forzon, per il momento, concentrava la sua attenzione sul re; ma, da quella distanza, alla luce vacillante delle fiaccole, riusciva solo a distinguere una figura massiccia avvolta in una ampia veste, quando qualcuno del seguito si chinava in avanti. Deluso rivolse la sua attenzione allo spettacolo.

Sulle prime gli sembrò tutto molto caotico. A ogni estremità dell’arena wn artista dipingeva un’immensa tela. Il re avrebbe premiato il dipinto che più gli sarebbe piaciuto, spiegò Ultman. Un poeta recitò la sua ultima poesia. L’acustica del luogo era perfetta; ma Forzon non afferrò la maggior parte delle allusioni. Un gruppo di danzatori avanzò facendo un lungo girotondo per tutta l’arena, muovendosi con passo pesante e molto lento, ma facendo roteare tutto il corpo in fantastiche piroette. Un gruppo di soldati stava in piedi, in formazione compatta. Apparentemente non facevano nulla, ma mentre Forzon li osservava, i ranghi si mossero ed assunsero la forma di un fiore che si apre e comincia a stendere i suoi petali. Il fiore sparì e lentamente si formarono dei disegni geometrici.

Improvvisamente il palcoscenico fu sgombrato da tutti tranne che dai pittori. Un assistente in uniforme portò nell’arena un torril meravigliosamente scolpito e intarsiato, e il pubblico che fino a quel momento aveva osservato un silenzio rispettoso, salutò il musicista con un tuono di applausi scalpitanti.

«Lo chiamano Tor» mormorò Ultman, quando cessò il rumore. «Egli è per così dire un sinonimo del suo strumento. È il migliore suonatore che ci sia ed è relativamente giovane.»

Tor si sedette di fronte al torril e circondò le corde con le sue mani. Forzon lo guardava con attenzione e fece una scoperta: l’altezza del torril era proporzionata alla statura del suonatore, ma la dimensione della cassa armonica sferica era in proporzione alla sua bravura. Quanto maggiore era il globo, tanto più numerose erano le corde che vi si potevano fissare, e quanto più vasta era l’estensione dei toni, tanto maggiore era la maestria che occorreva per suonarlo.

Lo strumento di Tor aveva una sfera enorme e i suoni, che cominciavano dai bassi profondi per arrivare al tremulo timbro delle campanelle, possedevano quella ricca risonanza a confronto della quale gli strumenti più semplici che si udivano nelle taverne sembravano giocattoli. Le sue mani, che non parevano neppure sfiorare le corde, producevano un’incredibile, rapidissima quantità di note. La musica sgorgò gioiosa, poi affondò in un gemito sordo, sussurrò temi di sognante bellezza, e si concluse in un crescendo marziale. Il pubblico si alzò in piedi per applaudire e scalpitare. Forzon lo imitò.

«Non ho mai sentito nulla di simile» confidò a Ultman quando il tumulto cessò.

Tor cominciava a suonare un altro pezzo. L’arpeggiare aggressivo sulle corde cominciava bassissimo e gradualmente si muoveva lungo l’intera gamma dello strumento, per mezzo di temi a spirale. Poi di colpo si fermò, e fu un arresto così brusco che l’orecchio incredulo cercava ancora nel silenzio la voce che taceva.

Tor si alzò e rimase in piedi, fermo, a capo chino, rivolto verso la finestra centrale del chiosco. Una figura in veste sontuosa si sporgeva in avanti; il re, evidentemente, stava parlando, anche se le sue parole non giungevano al pubblico.

Forzon trattenne il respiro, al punto che gli mancò l’aria. Il viso di Ultman nell’ombra era immobile e stupefatto. In un silenzio di tomba, le migliaia di spettatori stavano semplicemente a guardare.

Delle guardie circondarono Tor, lo spogliarono sino alla cintola. Tutto accadde così rapidamente che era già finito prima che Forzon ne avesse potuto capire l’orrore: il balenare della sciabola, l’urlo di dolore, il medico che si prodigava sul moncone sanguinante… Forzon non si accorse di essersi alzato in piedi finché Ultman non lo tirò bruscamente indietro sussurrando freneticamente: «Attento, attento…»

La folla rimase seduta, come ipnotizzata dal proprio silenzio, mentre Tor, col braccio mozzo e fasciato, gli abiti rimessi sulle spalle, usciva barcollando. L’assistente portò via il torril e nel punto dove prima si era alzata una splendida musica, non rimaneva che polvere macchiata di sangue e l’avanzo di un braccio umano. Nessuno osò toccarlo per il resto dello spettacolo, e gli artisti lo evitarono nervosamente.

«Ma perché? Perché?» ripeteva Forzon in un singhiozzo. «Era un grande musicista.»

Ultman gli fece cenno di tacere. «Era…» gli sussurrò duramente.

Vi fuorono poi dei bellissimi canti, dei danzatori perfetti che ballarono sul ritmo di piccoli tamburi, acrobati che si esibirono in strani giochi compreso il lancio di torce accese nell’arena buia, campanelle tintinnanti, suoni profondi del gong, altri canti, altre danze, altre poesie, tutte cose affascinanti, ma sulle quali la mente intorpidita di Forzon rifiutava di fermarsi. Si sentiva male, molto male, voleva andarsene; ma sapeva, anche se nessuno glielo aveva detto, che lasciare la festa del re prima che fosse finita era molto pericoloso.

L’entusiasmo della folla era stato soffocato. Gli attori si muovevano come in preda al terrore. La festa si trascinò con fatica per un’altra ora. Poi il re e il suo seguito finalmente se ne andarono e la folla poté lentamente uscire.

Ultman non parlò finché non ebbero voltato l’angolo di un vicolo coperto, lasciandosi dietro il grosso della folla. «Dicono che succeda spesso» osservò pensoso «ma non mi risulta che fosse mai successo in pubblico, e nemmeno in privato, a una figura popolare come Tor. Il vecchio Rovva deve avere qualcosa che lo disturba. Forse mal di denti. Dicono che l’ultimo suo mal di denti sia costato la metà della real casa.»

L’immagine di quel braccio mozzo scottava nella memoria di Forzon. Disse solo: «Quell’uomo sarebbe stato considerato un grande artista in qualsiasi luogo.»

«Era qualcosa di più. Questi artisti viaggiano molto e Tor era il migliore. Un eroe nazionale, si potrebbe dire. Il re dev’essere impazzito.»

Percorsero tutto un labirinto di viuzze scure e tortuose. Forzon, ammutolito, seguiva Ultman chiedendosi se, da solo, avrebbe ritrovato la strada sino alla sua cantina. C’erano poche taverne in quella parte della città, e l’unica luce che si notava qua e là era la fessura luminosa di una finestra oscurata. Nel buio tutto a Forzon sembrava diverso e fu solo quando ebbero camminato molto più di quanto gli sembrava necessario, che si rese conto che tutto era diverso.

«Stiamo andando da un’altra parte, non è vero?» chiese.

«Sì» rispose Ultman, asciutto.

Giunsero in uno spazio scoperto, formato dall’incrocio di diverse strade. La torcia di una taverna bruciava dalla parte opposta. Ultman trasse Forzon nell’ombra e gli chiese:

«Vedete quella finestra?»

Forzon guardò nel buio, spostandosi in avanti per vedere oltre la curva aggettante dell’edificio. «Non sono sicuro…»

«Di giorno ci sono dei fiori, su quella finestra. Di notte si vede un lume.»

«Non c’è alcun lume» osservò Forzon.

«Appunto.»

Si affrettarono e Forzon si avvide improvvisamente che Ultman guardava ripetutamente dietro di sé. «Abbiamo dei segnali come questo sparsi in tutta Kurr» disse. «Li controlliamo più spesso che possiamo. Questa finestra è la terza, stasera, che dovrebbe essere illuminata e non lo è. Significa che la Squadra B è nei guai.»

«Che cosa facciamo?»

«Non lo so ancora.»

«La Sovrintendenza Culturale è tutt’altra cosa» borbottò Forzon, e cominciò a guardare i passanti con una certa inquietudine.

Camminarono ancora un po’, tenendosi il più possibile nell’ombra, poi Ultman si fermò sotto la torcia di una taverna mentre si toglieva deliberatamente la cappa e la piegava sul braccio. Un attimo dopo una vecchia megera tutta curva uscì da una porta e andò zoppicando verso di loro. Lanciò un’occhiataccia a Forzon, scambiò alcune frasi pungenti con Ultman, e prima di allontanarsi gli sibilò: «Uragano Tre.»