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La poesia kurriana appariva stilizzata e sclerotica. Era l’inevitabile risultato di un sistema ereditario per cui solo il figlio di un poeta poteva diventare poeta a sua volta. Eppure lo stesso rigido sistema non impediva ai pittori di produrre un’arte sempre fresca e vigorosa, I musicisti kurriani, anch’essi avevano raggiunto cime straordinarie sia nell’espressione creativa sia nel virtuosismo. Invece, gli unici poemi che aveva udito declamare inneggiavano banalmente alla bellezza della natura o alla nobiltà e alla saggezza del re. Sarebbe stato in grado Forzon di convincere un poeta a comporre versi satirici ad elogio delle malefatte del re? Probabilmente no, e l’esilio istantaneo in una moncopoli del primo che l’avesse tentato avrebbe scoraggiato tutti gli altri.

«Ciò che devo fare» pensò disgustato «è solo questo: infondere la necessità di una rivoluzione sotto una forma di espressione semplice, che il popolo possa adottare spontaneamente. Le arti formali sono da scartare. I loro cultori hanno le mani legate dalla rigidità degli ordini chiusi e delle tradizioni ereditarie; inoltre, sono troppo vulnerabili. Occorre che l’espressione sia così diffusa che nessun individuo singolo sia ritenuto responsabile e quindi punito per questo, oppure che i responsabili siano in posizione tale da garantire loro l’impunità. Nessuna di queste circostanze esiste presentemente.»

Le canzoni, forse. Una canzone che diventa popolare può causare più danno di una dozzina di tasse ingiuste; ma non vedeva come si potessero fare delle canzoni che tutti avessero voglia di cantare. Nessun Kurriano avrebbe osato scriverle e Forzon dubitava di poterlo fare egli stesso. Simile compito richiedeva la sicura conoscenza degli idiomi musicali e poetici dei Kurriani, e una penetrazione psicologica del carattere di quel popolo. Non possedeva né l’una né l’altra.

Frugava febbrilmente nella sua immaginazione. Una caricatura che raffigurasse il re nell’atto di tranciare un braccio? Doveva essere eseguita in modo superbo per competere, a livello artistico, con i dipinti che si vedevano dappertutto. Inoltre, per ottenere un numero sufficiente di riproduzioni si doveva ricorrere alla produzione di massa. La Regola dell’Uno. Maledizione!

Un’improvvisa sensazione di pericolo indusse Forzon a fermarsi. Un carro gli si avvicinava da dietro; a differenza degli altri carri non era uscito di strada per schivarlo.

Forzon non osò guardare indietro. Continuò a camminare, affrettando il passo, allungando la falcata. Il cigolio del carro cresceva con ritmo costante e finalmente gli fu vicino. L’orribile esg lo sorpassò e lo guardò sbuffando mentre il carro continuava ad avanzare. Forzon si mise in disparte e a quel momento il carro si fermò.

Egli si voltò lentamente. Era un tipico carro kurriano, a due ruote e con la cassetta fatta di assi unite da caviglie di legno. Il conducente era seduto davanti, su un’asse posta per traverso, con le redini strette nella mano destra, con gli occhi fissi sulla strada.

Nel carro vi era un solo oggetto, stupendamente intagliato, lucidato e intarsiato d’oro. Un torril. Forzon fece passare uno sguardo spento dal torril alla manica sinistra, vuota, del conducente che palpitava miserevolmente nella brezza leggera.

Aiutandosi goffamente con la mano destra, Forzon si arrampicò sul carro. Tor, che la sera avanti era ancora un grande musicista, ed ora solo un povero reietto, agitò le redini e l’esg riprese la marcia.

Viaggiarono per tre notti e tre giorni. Di notte scendevano a turno per guidare l’esg con una torcia accesa. Uno camminava in testa al carro, l’altro si assopiva. Camminarono fino al momento in cui l’animale esausto rifiutò di andare avanti e si addormentò nei suoi finimenti. Forzon fece più della sua parte come conducente e come porta fiaccola. Tor trascorreva le sue ore di veglia torturato dal dolore. Non si lamentava; ma il suo viso atrocemente pallido, la sua posa rannicchiata, i denti stretti, tradivano la sua indescrivibile sofferenza. Nel sonno febbrile gemeva e si lagnava di continuo.

Quando avevano bisogno di bere e di mangiare, qualcuno provvedeva. Bastava fermarsi presso una fattoria o nella strada di un villaggio e dopo un po’ qualcuno gettava un cestino o una borraccia nel carro e scappava. Per tutta la durata del lungo percorso nessuno rivolse loro la parola, e fra di loro non si parlarono.

Al pomeriggio del quarto giorno, passarono in prossimità di una delle numerose guarnigioni reali. Quei grandi edifici di pietra, che parevano fuori luogo in quella cornice rurale, erano situati lungo le strade principali, a un giorno di viaggio l’uno dall’altro. Tutte le sentinelle che avevano finora incontrato voltavano le spalle, ma questa, quando notò le maniche vuote, scese sulla strada e puntò l’indice. Essi uscirono dalla strada polverosa e imboccarono un sentiero serpeggiante, appena tracciato, che si inoltrava nelle colline.

All’imbrunire arrivarono in vista di un villaggio da presepe, annidato in una valle profonda. Gli animali pascolavano sulle colline adiacenti e il fondo piatto della valle era tutto coltivato a giardini e a campi di grano. Gli edifici, contrariamente a quelli degli altri villaggi rurali, erano fatti di pietre tagliate, e le loro facciate bianche brillavano perfino nell’ombra della valle. Crescevano i fiori da ogni lato della strada e nei sentieri. Il paesaggio era delizioso e Forzon lo guardò con orrore.

Com’era grande, il villaggio!

E solo in seguito ricordò che questo era solo uno fra tanti.

Di fronte a loro, lontano, sul fianco della collina, sorgeva una fila di caseggiati, che dominava il villaggio. Un altro edificio solitario si alzava proprio davanti a loro, nel punto dove il sentiero erboso discendeva verso la valle. Tor fermò il carro lì vicino ed attese. L’esg cominciò a scalpitare e a soffiare con impazienza.

Finalmente apparve un uomo, e mentre essi sedevano con gli occhi bassi, li esaminò ben bene, poi mormorò con disgusto: «Un musicista e un cameriere…» e fece cenno di proseguire. Solo quando l’uomo si voltò Forzon osò guardarlo direttamente. L’aveva visto solo con la coda dell’occhio, ma non si era sbagliato: non era un monco.

Quando si avvicinavano al villaggio, un vecchio venne loro incontro zoppicando, un monco, li salutò silenziosamente con un cenno del capo e li guidò attraverso le strade del villaggio. Si fermarono all’estremità opposta del paese, presso un edificio nuovo vicino al quale se ne costruiva un altro. Il villaggio s’ingrandiva.

Scesero dal carro. La costruzione era d’aspetto tipicamente kurriano, ma aveva una lunga fila di porte che davano sulla strada. La loro guida aprì una di quelle porte e fece un cenno con la mano. Forzon entrò in una piccola stanza contenente un pagliericcio, una sedia e un tavolo col suo corredo di ciotole per bere e per mangiare, in legno scolpito a mano.

Il vecchio aprì bocca per la prima volta: «Il tuo braccio ha bisogno di cure? Abbiamo un dottore.»

«No, non ho bisogno di nulla» disse Forzon.

«Sei fortunato. Generalmente un braccio non si rimargina con tanta facilità.»

Forzon convenne di essere fortunato.

I governatori del villaggio, proseguì il vecchio, desideravano salutarlo appena si sentisse in grado di riceverli. Forzon meditò gravemente e rispose che li avrebbe volentieri ricevuti in qualsiasi momento desiderassero visitarlo. Il vecchio lo ringraziò e andò alla porta vicina per parlare con Tor e qualche ora dopo una delegazione degli anziani del villaggio, venne a porgergli il benvenuto ufficiale del paese.

Gli dissero, quasi scusandosi, che un cameriere, anche se di corte, non poteva trovare analoga occupazione in una moncopoli. Però molti mestieri erano adatti a tutti. C’era sempre bisogno di uomini per trasportare i materiali occorrenti ai muratori che costruivano nuove case. Chi coltivava i campi o badava alle greggi era lieto di avere un aiuto. Alcuni artigiani l’avrebbero preso quale apprendista, perfino gli artisti accettavano qualche volta un aiutante per i piccoli lavori, sebbene fossero costretti per giuramento a non rivelare ad estranei i segreti della loro arte. Se Forzon lo voleva, poteva lavorare in qualsiasi tipo di impiego che gli si offriva; ma, se lo preferiva, poteva anche non fare nulla. Nessuno avrebbe mai interferito nella sua vita e l’unica legge del villaggio voleva che neanche lui interferisse nella vita degli altri.