Il grande re, nella sua nobile generosità, provvedeva a fornire al villaggio tutto ciò che gli mancava. L’eccedente dei raccolti e delle greggi, e tutto ciò che gli artigiani fabbricavano e di cui il villaggio non aveva bisogno, veniva venduto al re, e parte di questo denaro tornava al villaggio che poteva impiegarlo in acquisti collettivi di beni voluttuari.
Quella vita, gli dissero i governatori, parlando lentamente come per convincersi essi stessi, era molto piacevole. E sebbene Forzon fosse libero di vivere nell’ozio, ritenevano che sarebbe stato più felice dedicandosi a un lavoro.
Forzon li ringraziò dei loro consigli. Nella stanza accanto, il dottore stava medicando Tor, e i visitatori parevano altrettanto desiderosi di sfuggire a quelle grida di tortura e a quei singhiozzi, quanto Forzon di vederli andare. Rapidamente gli descrissero i regolamenti del villaggio e si congedarono.
Seguendo le loro istruzioni Forzon cominciò per farsi assegnare un corredo di vestiario. Lo esaminò con molta trepidazione. Per fortuna le giacche, che erano abbondanti, avrebbero nascosto il braccio e difeso il suo travestimento. Ma gli abiti dimostravano che il grande re era forse generoso, ma non era certamente prodigo del tessuto regio: ogni manica sinistra era dimezzata.
Presso la cucina collettiva, al centro del villaggio, una donna monca riempì silenziosamente le ciotole di Forzon. Egli le riportò a casa e mangiò lentamente il suo pasto meditando sulla saggezza della Squadra B che lo aveva mandato in quel luogo.
La legge di non interferenza prometteva bene, dal punto di vista della sua sicurezza, e il diritto all’ozio gli garantiva il tempo necessario a elaborare un piano per Kurr. C’era solo da vedere se, in questo villaggio di sepolti vivi, sarebbe riuscito a concepire un piano che fosse valido anche fra i vivi.
Gli edifici posti sulla parte alta della collina erano dei dormitori e da questi, ogni mattina, usciva una lunga processione di donne monche addette alle cucine, Due volte al giorno preparavano il cibo che gli uomini venivano a prendere e si portavano nei loro alloggi per mangiare. Non pareva vi fossero contatti sociali fra donne e uomini, e pochissimi fra gli uomini. Gli artigiani lavoravano in coppia, se il lavoro richiedeva due mani. Ma le loro conversazioni si limitavano a brevi ordini, a una domanda borbottata e uno sguardo di risposta. Era un villaggio intensamente silenzioso.
Era la confraternita dei senza nome. I nomi appartenevano al passato, e il passato dei coabitanti era accuratamente sepolto nella loro memoria.
Forzon avrebbe voluto mettersi a lavorare subito; d’altra parte, dovette lottare contro la naturale curiosità di conoscere l’ambiente. E perse la battaglia. Per vari giorni, vagò da una bottega all’altra, osservando in silenzio i silenziosi lavoratori. Abili fabbri formavano stupendi oggetti di ottone lucente e d’argento per il commercio del re. I tessitori, che lavoravano in due a ogni telaio, fabbricavano eleganti tappeti o dei tessuti ognuno dei quali aveva disegni originali, creazioni uniche. Altri, che lavoravano con incredibile senso di coordinazione, trasformavano mucchi di paglia in meravigliosi cestini o stuoie dai disegni straordinari. Vi erano intagliatori di legno, pavimentatori, ceramisti, carpentieri e muratori.
Solo le opere dei pittori erano una delusione, e ciò fece a lungo riflettere Forzon che finì per spiegarselo dicendosi che la pittura kurriana era un’arte fatta di realismo, di ambienti e visi familiari, e che nell’ambito di una moncopoli non trovava posto. Fissare pittoricamente la tetra vita che la gente di quel villaggio conduceva ripugnava a tutti gli artisti. Vivevano di ricordi, e nessun pittore può riprodurre i ricordi degli altri. Fra tutte le abitazioni del Kurr, solo le pareti imbiancate a calce della moncopoli erano prive di quadri.
Non veniva certamente voglia ad alcun pittore di ritrarre il villaggio e i suoi mutilati. Dipingevano esclusivamente cose del loro passato. Non la gente (quelli erano ricordi troppo personali per renderli materialmente visuali) ma i luoghi. Un artista anziano aveva coperto i muri del suo studio di quadri che rappresentavano tutti la stessa casetta adorna di fiori. La si vedeva in un quadro tutta bianca e luminosa nella luce dell’estate, con i suoi muri dipinti di fresco, i suoi fiori dai colori sgargianti. In un altro quadro la casa era raffigurata sotto i rovesci di un temporale estivo. In un altro ancora era illuminata dal caldo sole della mietitura, con canestri di frutta presso la porta. Qui invece era inverno, e il vento freddo aveva spogliato la casa del fogliame che la ricopriva. Qui in primavera, col primo verde annunciatore della buona stagione. La casetta invecchiava, acquistava una mano di pittura nuova, poi tornava a sopportare il ciclo completo dei temporali e delle stagioni.
Non vi era mercato esterno per quel tipo di pittura. I cittadini che potevano facilmente ordinare quadri della loro vita presente non s’interessavano ai ricordi di un passato altrui ormai defunto.
Come critico d’arte, Forzon giudicava deludenti questi dipinti; ma dal punto di vista umano, la struggente tragicità di queste opere lo commuoveva sino alle lacrime.
Fra tutti questi uomini di vario talento e occupazione, Forzon era interessato soprattutto dal suo vicino di casa, Tor, che, come lui, non faceva niente.
Il torril era stato posto al centro della esigua stanza. Tor gli sedeva vicino, su uno sgabello di legno, e l’infelicità aveva scavato il suo bel volto giovane. Spesso Forzon aveva udito, o gli era parso d’udire, la piacevole risonanza di una corda pizzicata. Ma non ne era sicuro.
Un pittore, a patto che fosse destrorso, poteva continuare a dipingere senza perdere nulla della sua abilità, anche col braccio sinistro mozzato. Un cantante poteva continuare a cantare, un poeta a combinare parole. Un artigiano poteva ancora creare dell’ottimo lavoro con una sola mano. Per Tor era la suprema tragedia.
Sarebbe stato possibile suonare il torril con un certo stile adoperando una mano sola, scegliendo della musica di facile struttura a gamma limitata, ma ovviamente per un consumato musicista come Tor, sarebbe stato peggio che non suonare affatto.
Quando Forzon si accorse che Tor non mangiava con regolarità, infranse la regola fondamentale del villaggio e intervenne. Si fermò di tanto in tanto per chiedergli la ciotola, che portava a riempire alla cucina del villaggio. Tor accettava il cibo con un cenno di ringraziamento, ma mangiava poco. Si parlarono per la prima volta quando Forzon gli chiese, d’impeto, di dargli delle lezioni di musica. «Mi potresti insegnare a suonare?» gli chiese.
Un lampo d’interesse illuminò il viso di Tor, ma poi si spense. «No» rispose senz’altro commento.
«Potrei sedermi di fronte a te» disse Forzon. «Con la tua mano da una parte, la mia dall’altra, potremmo suonare insieme.»
«È impossibile.»
Anche nel villaggio dei sepolti vivi, Tor rimaneva fedele al suo giuramento artistico.
Un giovane intagliatore di legno stava fabbricando una grande ciotola da bere, all’interno della quale scolpiva grappoli di kwim, un frutto a bacche, che serviva a fare dei vini leggeri del Kurr. Ogni giorno una nuova bacca emergeva dalla superficie liscia del legno, la sua sagoma allungata era scavata nel legno con precisione chirurgica. La superficie periata era sagomata con amore. Ogni giorno una bacca. Le foglie, con le loro delicate nervature, i bordi increspati, richiedevano probabilmente più tempo. Vi erano in media da dieci a quindici bacche in ogni grappolo e, una volta terminato il lavoro, vi sarebbero stati almeno dieci grappoli con foglie e frutti intorno al bordo interno della ciotola. Forse quell’operaio avrebbe intagliato anche il fondo e la superficie esterna. Forzon calcolò che la ciotola avrebbe tenuto occupato l’intagliatore per due anni o più, e uscì scuotendo il capo.