Così sì misurava il tempo in una moncopoli. Una bacca al giorno, scolpita in rilievo su una ciotola. Oppure, se si trattava di un quadro, un fiore sulla facciata di un’abitazione, reso alla perfezione con pennellate quasi microscopiche, ogni petalo palpitante di rugiada; un solo verso di poesia, per il quale mille parole erano state esaminate nel loro significato, pesate accento per accento, e poi scartate.
La maggior parte degli artigiani e degli operai lavorava con leggera, meccanica efficacia; ma i loro lavori non avevano un fine utilitario. Gli abitanti del villaggio erano alloggiati, vestiti e nutriti di modo che quelli dotati di qualità artistiche trovavano sollievo al tormento dell’anima dedicandosi a qualche lavoro di una perfezione inutile, al ritmo di una bacca al giorno; quelli totalmente sprovveduti potevano trascorrere le ore di veglia nella contemplazione dell’infinito.
Una volta soddisfatta la sua curiosità iniziale delle cose del villaggio, Forzon divenne anch’egli un contemplatore. Ma non mirava all’infinito, bensì pensava al Kurr e alla sua gente. Ogni giorno tentava di immaginare come quella popolazione che, all’infuori delle moncopoli, era fatta di gente felice e ricca, si sarebbe comportata in mezzo a una rivoluzione, e non riusciva a raffigurarsela. Le idee che gli nascevano nella mente avevano la stessa forza di una puntura di spillo, e si sa che una puntura di spillo, anche se fa uscire il sangue, raramente ha conseguenze fatali.
Soppesava le proprie idee una per una e le scartava. Alla fine non gli rimase nulla, tranne la riesumazione della sua ipotesi a proposito dei canti sovversivi popolari. Il destino aveva posto Forzon a contatto dell’unico grande musicista del Kurr che per di più aveva un conto aperto con il re. Ma l’umore dominante di Tor era quello di una tragica disperazione, e non quadrava con il tocco leggermente satirico che un canto di quel genere esigeva. Chissà se Tor poteva comporre quel tipo di musica? Valeva la pena di provare.
Rimase il problema del testo, e i tentativi di Forzon di condurre i poeti fuori dei loro argomenti abituali (tramonti dimenticati, malinconica sorte dei fiori appassiti, eccetera) fallirono miseramente. Le parole che gli occorrevano doveva scriverle lui.
Con gran fatica riuscì a mettere insieme una sola strofetta:
Scrisse accuratamente lettera per lettera la sua strofetta su un pezzo di pergamena e la portò a Tor. «Hai mai composto musica per una canzone?» gli chiese.
Tor distolse lo sguardo da un suo particolare, infinito vuoto interiore, e fissò Forzon senza parlare, con gli occhi di uno che non capisce.
«Ho qui una poesia di cui vorrei fare una canzone» disse Forzon. «Potresti comporre tu la musica?»
Tor allungò la mano destra e prese la pergamena. Forzon guardava ansiosamente il musicista che leggeva con attenzione ogni verso. Di botto gettò indietro la testa, guardò Forzon con gli occhi pieni di attonita sorpresa e urlò: «Tradimento!»
Forzon riprese la pergamena e si precipitò a casa, la bruciò e ridusse i resti in cenere.
«Ben fatto per la mia puntura di spillo» pensò amaramente Forzon. «Com’è possibile concepire una rivolta in un paese dove anche le vittime della ignobile crudeltà del re impallidiscono per l’orrore al solo sussurro di un tradimento?»
Di notte lasciava la sua stanza e girovagava, inciampando qua e là, per la campagna ondulata, sbirciando la piccolissima luna e cercando un’ispirazione, un’idea, un fatto, qualsiasi cosa che si potesse convertire in una sembianza di piano sul quale lanciare la Squadra B. Ogni giorno che passava, recava una nuova bacca alla coppa dell’intagliatore e (pensava Forzon) un nuovo capello bianco nella sua capigliatura… sotterranea. Da un momento all’altro poteva giungere la notizia che la Squadra B aveva completato l’opera di riorganizzazione.
Non aveva alcun piano e la sua ispirazione, come la piccola luna di Kurr, non si lasciava afferrare.
CAPITOLO X
Arrivavano a coppie, o da soli, per la maggior parte a piedi, col viso stravolto, esausto, tirato dal dolore.
I nuovi ospiti. Quando l’ultima stanza di un dormitorio veniva assegnata, era pronto subito un nuovo edificio e si ponevano le fondamenta dell’edificio successivo. Un triste giorno arrivarono in dieci. Gli anziani del villaggio li ricevettero senza emozione e fecero accelerare la costruzione dell’ultimo fabbricato.
Forzon viveva nel villaggio già da un mese (un mese kurriano, cioè trentasette giorni), quando assistette all’arrivo di una donna. Un anziano la ricevette con l’usuale, silenziosa compassione, guidò il suo carro verso il dormitorio delle donne sul fianco della collina e, mentre gli passava vicino, Forzon notò che la donna era di mezza età, che il suo viso era solcato dalle lacrime e che infine possedeva quel nasino voltato in su che si era giurato di mai dimenticare.
Ann Cory B-627 furtivamente gli lanciò un’occhiata e ammiccò. Forzon la seguì a buona distanza e stette a guardare quando gli anziani le assegnarono un alloggio.
La incontrò a notte fatta e insieme andarono nel pallido chiarore della luna, sino in cima alla collina e sedettero a guardare il villaggio sottostante immerso in un buio profondo. Dei lumi ardevano nella casa dell’agente del re, l’uomo dal viso duro, l’individuo con due mani, che aveva accolto Tor e Forzon con tale disprezzo; ma la sua casa all’estremità della valle era staccata dal villaggio e guardava dall’altra parte, e così faceva anche l’agente, tranne nei giorni in cui si caricavano per portarle al mercato, le derrate eccedenti i bisogni del villaggio. Non vi erano mai lumi accesi nel villaggio e quando ardevano fin tardi ciò significava invariabilmente malattia o morte.
«È un luogo tetro» osservò Ann.
«È un luogo orribile» disse Forzon.
«Avrete, se non altro, la soddisfazione di abolire questi luoghi.»
Sconcertato, Forzon cercò di cambiare argomento. «Come stanno le cose fuori di qui?» chiese debolmente.
«Male. Ingarbugliate. Rastadt ne sapeva più di quanto credevamo, maledetto lui, e siamo stati più d’una volta sull’orlo del disastro. Ma ce la siamo cavata. Paul sta rappezzando i cocci e presto saremo in grado di agire a Kurra; ma ci vorrà più tempo per tornare ad impiantarci nelle province rurali. Il re ha lanciato i suoi ruff in ogni direzione, e ogni faccia nuova è sospetta… salvo in una moncopoli.»
«Avete ricevuto ordini diretti da Rastadt?»
«No, abbiamo interrotto le comunicazioni, come avevate suggerito. Egli saprà che siamo entrati nella clandestinità, e saprà che il re non ha acciuffato neanche uno dei nostri agenti, sempreché il re voglia ammetterlo. Anche se lo ammette, forse Rastadt non gli crederà, e poiché i consigli del coordinatore gli hanno fatto mettere sottosopra il paese senza ottenere alcun risultato tangibile, può anche darsi che il re abbia smesso di credere a Rastadt. È una situazione curiosa e quei due si meritano l’un l’altro. Che cosa ci avete preparato?»