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Mentre andavano verso la porta, Forzon studiò l’ambiente nel quale si trovava. Il castello era stato costruito all’epoca in cui gli architetti kurriani si erano accorti che due alberi curvi messi di fronte uno all’altro formavano un arco, e avevano applicato con esuberanza questa loro trovata nella enorme sala delle udienze. Il locale era fitto di archi ornamentali che si curvavano al disopra della sala come le costole scarnificate di un gigante morto da decenni. La volta del soffitto, che appena si vedeva tanto era alta, era solcata dalle ombre degli archi. Le torce nei loro bracci a muro, erano allineate da una parte della stanza. Dall’altra, attraverso le finestre-feritoie, Forzon ebbe una rapida visione della vasta piazza prospiciente il castello, e degli edifici situati oltre questa.

L’agente e il comandante della guarnigione aspettavano ansiosamente fuori della porta. «Che peccato!» mormorò Forzon con ironica sollecitudine. «Avreste dovuto farvi consegnare il premio prima del mio interrogatorio.»

Dopo un altro tortuosissimo tragitto nel labirinto di corridoi, fu accompagnato alla sua stanza. Si aspettava di trovare una segreta. Gli davano invece una stanza più adatta a un ospite d’onore che a un prigioniero. Era grande, lussuosamente arredata; ma era ugualmente una prigione. La porta pesante si chiuse con un tonfo, fu sprangata dal di fuori ed egli si ritrovò solo.

Le finestre-feritoie guardavano su un cortile chiuso, molti metri più in basso. Le esaminò con cura e capì che nessuno sciopero della fame, per lungo che fosse, avrebbe permesso a un adulto di usarle per scappare. Esaminò allora i tagli a zigzag della porta stessa. I suoi occhi incontrarono quelli di una guardia e vide altre guardie, accoccolate nella curiosa posizione che a Kurr era ritenuta militare.

«È chiaro che non mancherò di gente che si occupa di me» si disse Forzon, e cominciò a sentirsi meno ottimista. Anche se gli agenti della Squadra B scoprivano dove era andato a finire, dubitava che potessero venire a ripescarlo.

Scese l’oscurità. Per un po’ Forzon si divertì a guardare le guardie fare la loro ronda nel perimetro del cortile interno. Ognuna brandiva una torcia, le luci si muovevano l’una incontro all’altra, facevano dietro-front, e ripartivano incontro ad altre luci. Erano ronde molto complicate.

Stancatosi dello spettacolo, Forzon si distese sul letto e pensò a Re Rovva. Quello non era un cencio molle, uno che per ragioni di nascita ha ereditato una corona. Gli agenti della Squadra B l’avevano descritto come un uomo robusto, crudele, capriccioso, intemperante, ma dotato di un raffinato istinto che frenava i suoi impulsi malvagi a un pelo dal limite estremo che avrebbe suscitato sdegno e forse ribellione fra i suoi sudditi. Forzon lo vedeva diversamente. Quello era un uomo già anziano, e se la saggezza non era un suo dono di natura se l’era acquisita con gli anni; adesso era profondamente turbato. Egli era il pessimo prodotto di un pessimo sistema, ma Forzon ricordò che i Kurriani erano un popolo profondamente equilibrato e civile… e Re Rovva era anche lui un Kurriano. Si comportava a quel modo non per innata crudeltà ma in virtù di quel diritto che spettava ai re di Kurr.

Prima che la Squadra B potesse indurre il popolo a ribellarsi contro questo re, essa avrebbe dovuto spingerlo a ribellarsi a se stesso. Toccare la coscienza del re: ecco il problema. E la Squadra B aveva preso un completo abbaglio, perché non credeva nella coscienza di Re Rovva.

L’occupante della camera attigua cominciò a gemere e a piagnucolare. Forzon si avvicinò alle feritoie delle finestre e cercò di attrarre la sua attenzione con leggeri fischi e bisbigli. Ma non ottenne alcuna risposta. Tornò nel suo letto. I gemiti e i singhiozzi continuarono, ma Forzon esausto per il lungo viaggio si addormentò di un sonno profondo.

Era mattino inoltrato quando si svegliò. Gli avevano portato da mangiare e non aveva nient’altro da fare che rimanersene accanto alle feritoie a guardare la parata delle guardie nel cortile sottostante. Concluse malinconicamente che le lezioni di pazienza sembravano prolungarsi all’infinito.

I singhiozzi e i piagnistei del vicino ricominciarono. Forzon andò alla porta e chiamò una guardia.

«Che cos’ha il prigioniero della stanza accanto?»

La guardia alzò le spalle e non rispose. Forzon era trattato con una cortesia quasi pignola, ma le guardie non gli rivolgevano la parola.

«Vorrei cambiare camera» disse Forzon. «Il rumore mi dà fastidio.»

La guardia alzò nuovamente le spalle; ma dopo un po’ si udirono dei colpi battuti sulla porta accanto, fu gridato un comando e i singhiozzi cessarono.

Più tardi Forzon fu riaccompagnato nella sala delle udienze. Attraversò di nuovo a testa alta tutta la lunghezza della stanza e questa volta effettuò con fare cerimonioso l’inchino rituale.

Gasq sgranò tanto d’occhi.

«Mi fate l’inchino? Perché?»

«Eccellenza» disse Forzon «avevo sbagliato. L’inchino è un uso del vostro popolo e non è stato cortese da parte mia non rispettarlo. Un ospite civile dovrebbe sempre conformarsi agli usi dei suoi anfitrioni. Riconosco il mio errore e mi correggo.»

Gasq fece un cenno distratto alle guardie che legarono Forzon alla sedia e si ritirarono. «Perché la Squadra B non lascia il Kurr?» chiese Gasq senza preamboli.

«Perché dovrebbe lasciarlo?» disse Forzon rivolgendosi direttamente al re che sedeva immobile nella lunetta di osservazione.

«I suoi regolamenti stessi le impongono di andarsene» insistette Gasq. «Il vostro comando vi ha ordinato di andarvene. Perché non ve ne andate?»

Forzon continuava a tenere gli occhi fissi sul re. «Vostra Maestà è meglio informata di me. Io non so quasi nulla dei regolamenti della Squadra B e assolutamente nulla degli ordini ricevuti.»

«Quando venne quella donna a trovarvi nella moncopoli, vi disse qualcosa degli ordini?» chiese Gasq.

«Neppure una parola.»

«Siete il sovrintendente coordinatore. Avete il potere di ordinare alla Squadra B di lasciare il Kurr.»

«Ho infatti questo potere» confermò Forzon.

«E perché non lo fate?»

«Io non so dov’è la Squadra B, e la mia attuale posizione è quella di un uomo che riceve ordini, anziché dettarli.»

Sorrise e guardò arditamente il re negli occhi. Dall’aspetto, Re Rovva pareva molto perplesso. Aveva finalmente in mano il fuggitivo tanto cercato, e ora non sapeva che cosa farsene. Per la seconda volta valutava tutte le prove e rimaneva indeciso.

Gasq continuò a fargli le stesse domande del giorno prima. Forzon gli diede le stesse risposte e finalmente Gasq lo congedò.

L’incessante piagnucolio del suo vicino lo tenne sveglio tutta la notte, ma Forzon esitò a lamentarsene un’altra volta. Quel dolore gli ricordava troppo le sofferenze che Tor aveva patito. Alla fine sprofondò in un sonno turbato e a un certo momento della notte le guardie lo fecero saltare giù dal letto.

Re Rovva si era finalmente deciso.

Le guardie lo spinsero violentemente fuori dalla sua stanza. Si avviò senza protestare, barcollante e ancora insonnolito e mentre entravano nel corridoio un grido acutissimo infranse il silenzio.

«Forzon!»

Le guardie lo spinsero avanti in fretta, ma non prima che fosse riuscito a lanciare un’occhiata alle feritoie della stanza attigua. Un viso lo guardava, bianco come un fantasma nella luce vacillante delle torce.

Il suo singhiozzante vicino era il Coordinatore Rastadt.

CAPITOLO XIII

Questa volta si trattava prpprio di una segreta.

Dall’oscurità che nascondeva ogni cosa provenivano urli, gemiti e un puzzo nauseabondo. La guardia diede una rude gomitata a Forzon, e con un calcio gettò una scala di corda giù in una vasta fossa circolare. Forzon, sotto la minaccia di una lancia, cominciò diligentemente a scendere. Quando giunse con i piedi in fondo alla scala, la guardia, ridendo rumorosamente, lo punzecchiò con la lancia e Forzon allora discese a cambiamano finché non rimase sospeso all’ultimo tarozzo. Nel momento in cui si preparava a fare un gran salto, le punte dei suoi piedi toccarono il fondo. La scala di corda fu ritirata e Forzon si ritrovò in un’oscurità totale.