Guardò in alto e gli si mozzò il fiato: l’enorme soffitto era sostenuto da colonne svasate, come i muri esterni delle case. Pilastri, muri, soffitto, ogni punto che le torce delle guardie illuminavano, ardeva di vorticosi colori. Ma, neppure nei sogni più immaginosi, avrebbe potuto concepire una segreta simile. Fu sopraffatto dalla sua bellezza.
Le guardie passavano a intervalli regolari e ogni volta le loro torce illuminavano fugacemente la fossa. Forzon poté così intravedere delle sagome di altri prigionieri addormentati su umidi mucchi di paglia. Dei piccoli roditori dall’aspetto malvagio, scorrazzavano dappertutto senza ritegno, e i loro grandi occhi lampeggiavano rossi quando passava la luce delle torce. Forzon si fece un mucchio con della paglia sparsa e sedette a contemplare l’atroce ambiente nel quale era stato condotto. Voleva pensare a Rastadt, ma non poteva concentrarsi. I gemiti e i singhiozzi incessanti dei prigionieri erano interrotti solo dagli urli improvvisi e dallo snervante e tremulo grido dei torturati. I roditori correvano sfacciatamente sui piedi di Forzon. Quando, per distrazione, respirava dal naso, il puzzo violento gli faceva rivoltare lo stomaco.
Il volto pallido e implorante di Rastadt lo ossessionava. Certamente un disaccordo fra complici lo aveva consegnato nelle mani del re, e bisognava avvisare la Squadra B. Dato che Rastadt non comandava più la base, era indispensabile cambiare tutta la strategia della Squadra B.
E Rastadt…
Forzon non riusciva a concentrarsi. E neppure a dormire. I muri della fossa trasudavano acqua; la paglia era così umida che i suoi indumenti si inzuppavano ogni volta che la toccavano. Si alzò barcollando e prese a camminare in circolo intorno al suo mucchio di paglia. Parlò a una guardia che passava, e per risposta si ebbe un colpo di lancia che gli fece uscir sangue dalla spalla. Quando un suo compagno si svegliò, agitando le braccia, dal travaglio di un incubo, Forzon tentò di parlargli, ma la guardia tornò con un bugliolo e li cosparse entrambi di acqua sporca.
Finalmente l’alba mandò le sue frecce di luce dalle feritoie alte sulle pareti del pozzo. L’effetto era tale da mozzare il fiato. Una strana pietra cristallina rivestiva le pareti e il soffitto, e spezzava la luce in miriadi di colori. Neppure il popolo più appassionato di bellezza ne avrebbe sprecata tanta in una fossa carceraria. Forse quel locale era stato un tempo una specie di piscina reale, una sala piena di lucenti vasche dove il re si sollazzava con il suo harem. Ora le vasche erano solo buche puzzolenti e sebbene, in alto, sfolgorasse la bellezza, i prigionieri non alzavano gli occhi a guardarla.
I prigionieri si svegliarono dai loro sogni tormentati per entrare nella torturante realtà. Una guardia passando gettò distrattamente del cibo nella fossa. Forzon guardò con orrore i prigionieri e i roditori che si azzuffavano per prenderlo.
Il capo delle guardie, un bel giovane d’aspetto effeminato, dalle movenze aggraziate di un ballerino, passò a mezzogiorno, facendosi beffe dei prigionieri. Si fermò e sorrise a Forzon. «E così, anche tu sei uno che non parla.»
«Sono uno che non ha nulla da dire» rispose Forzon.
«Avrai molto da dire quando si metteranno a lavorarti. Non hai ancora conosciuto la scatola nera?»
«Non ho avuto il piacere.»
Il capo delle guardie lanciò un risolino acuto. «Piacere? La scatola nera ti procurerà molto piacere, se così lo vuoi chiamare. Prima ti tolgono le unghie della mano sinistra, una al giorno, per far durare il piacere. Se ancora non hai nulla da dire, ti lavorano le dita, ma una sola falange di un solo dito al giorno. La scatola non ha affatto fretta. Non fa niente di svelto, non taglia: strappa. Unghie, giunture delle dita, mano, avambraccio. Ed è anche molto versatile. Se, dopo di ciò, non parli, può fare lo stesso col braccio destro… e questo sì, ci porrebbe un problema: un uomo che ha perso entrambe le braccia, può essere ancora accolto in un villaggio di monchi? Non sta a me decidere, ma me lo sono sempre chiesto. Per fortuna, accade di rado. Poche falangi bastano a convincere quasi tutti. Non gli par vero di dire ciò che sanno e far terminare il lavoro dalla sciabola. Accetta il mio consiglio, amico. Più presto parli e ti metti in cammino per un villaggio di monchi, e meglio sarà per te.»
«Ne dubito» disse Forzon. «Sai, ne vengo or ora.»
Il capo delle guardie lo guardò ammutolito, passando più volte lo sguardo da una mano all’altra di Forzon. Se ne andò battendo i tacchi e un momento dopo un’altra guardia tornò a svuotare un bugliolo di acqua sporca su Forzon.
Poi cominciarono a portar via i prigionieri. Durante tutto quell’infame giorno le povere creature furono tirate su, una per volta, gementi e imploranti, e tornarono inconsce o singhiozzanti, col sangue che colava dagli stracci nei quali era avvolta la mano sinistra mutilata. Forzon soccombette alla stanchezza nervosa e riuscì a dormire alcune ore di un sonno irrequieto, allucinato.
All’alba del secondo giorno le guardie portarono via Forzon.
Egli le seguì con indignazione più che con paura. Tutti i popoli avevano i loro degenerati morali, spontaneamente attratti da quei servizi che appagavano i loro impulsi sadici. Le guardie delle segrete e gli incalliti manipolatori della scatola nera erano forse solo la faccia malsana di una società altrimenti sana.
O forse no. Nel qual caso, l’idea di Forzon, quella di riuscire a toccare la coscienza del re, doveva ascriversi alla sua innata ingenuità.
In un’altra stanza, le guardie inondarono Forzon con secchi d’acqua pulita e gli buttarono un involto di abiti di ricambio.
«I vostri torturatori sono così delicati che non possono lavorare su un prigioniero sporco?» chiese.
Si vestì e lo spinsero nel cortile. Gli legarono mani e piedi e lo issarono in un carro chiuso che immediatamente si avviò scricchiolando per le strade di Kurra.
Varcarono una delle porte cittadine, percorsero un tratto di strada polverosa e accidentata, e si fermarono. Dopo una sosta interminabile e soffocante, tolsero il copertone, il carro s’incamminò e Forzon riattraversò la porta cittadina.
Allo scoperto.
La temerarietà di quella mossa, che seguiva l’astuzia di averlo fatto portare a Kurra di nascosto, lo sbigottì. Ma solo per un attimo.
Era un tranello. Prima che la scatola nera del re togliesse a Forzon il braccio sinistro, una giuntura per volta, e lo rendesse inadatto a essere mostrato in pubblico, veniva usato come esca. Attraversando in quel modo le strade, lentamente e senza apparente scorta, qualcuno della Squadra B lo avrebbe veduto, avrebbe tentato di salvarlo. E i ruff del re erano pronti a intervenire.
Ce n’erano dappertutto, in borghese, mescolati alla folla dei pedoni, in vedetta alle finestre incombenti sulle strade, riuniti ai crocicchi. Egli non poteva identificarli, ma sapeva che c’erano. Il passo pesante dell’esg era così lento che la trappola dei ruff non aveva difficoltà a seguirlo. L’unica visibile scorta di Forzon consisteva in quattro uomini in uniforme di staffiere del re; ma quei pedoni che mantenevano così diligentemente il passo a fianco dell’esg non potevano essere altro che dei ruff, e, davanti e dietro, c’erano dei carri chiusi che senza dubbio nascondevano della gente. Lo stratagemma era diabolico. Pareva che perfino il frastuono cigolante dei veicoli cospirasse: Forzon avrebbe potuto urlare avvertimenti per tutta la strada che lo riportava al castello, senza che nessuno l’udisse.
Seguirono un percorso a spirale attraverso la città, usando delle vie secondarie che si potevano facilmente bloccare. Più avanti i ruff tenevano la strada libera da altri veicoli. Forzon sedeva immobile, sudato, indebolito dalla paura e dalla rabbia, scrutando la folla per trovare volti familiari, e sperando con tutto il cuore di non vederne.