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Ora non dovevo far altro che tornarmene alla foresteria reale e aspettare la risoluzione della crisi. Inutile pensare di ritrovare Avluela, in quella confusione: mi rimproveravo aspramente di essermela lasciata sfuggire, così, tutta nuda e indifesa in quel caos. Dove sarebbe andata? Chi l’avrebbe protetta?

Un’altra Vedetta, che correva come impazzita spingendo il suo carrello, mi urtò. — Attento! — gridai. L’uomo guardò in su, ansimante, sgomento. — Ma è vero? — disse. — L’allarme?

— Non lo senti?

— Ma è proprio vero?

Gli indicai i suoi strumenti. — Sai come si fa a controllare — dissi.

— Dicono che chi ha dato l’allarme è un ubriaco, un vecchio che hanno cacciato ieri dall’Ostello.

— Può darsi.

— Ma se l’allarme fosse vero?…

— Se lo è, tutti noi possiamo riposare. Buon divertimento, Vedetta!

— Il tuo carrello! Dov’è il tuo carrello? — mi gridò dietro.

Ma io me l’ero già lasciato alle spalle, e mi dirigevo verso il possente obelisco di pietra scolpita, resto dell’antichissima Roum Imperiale.

Su quella colonna erano scolpite immagini antiche: battaglie e vittorie, monarchi stranieri che camminavano incatenati per le strade della città, mentre le aquile trionfali celebravano la gloria degli imperatori. Nella mia strana, nuova calma, rimasi un poco a guardare la reliquia di pietra, ammirandone l’eleganza dei rilievi. D’un tratto vidi una figura correre frenetica verso di me e riconobbi Basil, il Ricordatore. Lo salutai, dicendo: — Arrivate a proposito! Fatemi la cortesia di spiegarmi questi altorilievi. Mi affascinano e mi incuriosiscono.

— Ma siete impazzito? Non sentite l’allarme?

— L’ho dato io, Ricordatore.

— E allora, fuggite! Arrivano gli invasori, bisogna combattere!

— Io no, Basil. Il mio compito è finito. Parlatemi di queste figure, di questi re sconfitti, di questi imperatori battuti. Un uomo della vostra età non può certo combattere…

— Tutti sono mobilitati, adesso.

— Tutti, meno le Vedette — dissi. — Aspettate un attimo. Il passato mi ha sempre attratto. Gormon è scomparso: siate voi la mia guida, in questi cicli perduti.

Il Ricordatore scosse la testa, mi girò intorno e cercò di svignarsela. Io feci un balzo, cercando di afferrarlo per lo scarno braccio e di trattenerlo, ma lui mi scartò bruscamente e riuscii solo ad acchiappare la sua sciarpa nera, che si sciolse e mi restò in mano, mentre il vecchio se la dava a gambe giù per la strada, scomparendo alla mia vista. Mi strinsi nelle spalle e osservai la sciarpa. Era intessuta di lucenti fili metallici, sistemati in disegni complicati, che ingannavano l’occhio: sembrava che ciascun filo scomparisse nella trama del tessuto, solo per ricomparire più in la, in qualche punto impensato, come linee dinastiche che risuscitavano inaspettatamente in città lontane. Era un lavoro superbo. Con gesto noncurante, mi gettai la sciarpa sulle spalle.

Poi m’incamminai.

Le mie gambe, che quasi si erano rifiutate di servirmi poco prima, ora facevano il loro dovere. Come ringiovanito, mi orientai facilmente nel caos della città: arrivai al fiume, lo attraversai e, dall’altra parte del Tver, cercai il Palazzo del Principe. La notte si era fatta più buia, perché quasi tutte le luci erano state spente in base all’ordine di mobilitazione; di quando in quando, un sordo boato avvertiva che sopra la nostra testa era esplosa una bomba fumogena, che liberava nubi di fuliggine nera per difendere la città da varie forme d’osservazione a distanza. C’erano pochi passanti, nelle strade, e le sirene continuavano a urlare. In cima agli edifici le installazioni difensive entravano in azione: udii il caratteristico suono dei repulsori che cominciavano a scaldarsi, e vidi le antenne degli amplificatori allungarsi da una torre all’altra, mentre si collegavano per ottenere una potenza massima. Ora non avevo più dubbi che l’invasione fosse alle porte. I miei strumenti si sarebbero anche potuti sbagliare, tratti in inganno dalla mia confusione interiore, ma non sarebbero mai andati tanto in là da mobilitare tutta la Terra, se il rapporto iniziale non fosse stato confermato dai rilevamenti di centinaia di altri membri della mia Corporazione.

Mentre mi avvicinavo al palazzo, due Ricordatori mi corsero incontro, senza fiato, le sciarpe svolazzanti. Mi gridarono qualcosa che non riuscii a capire; forse una parola d’ordine della loro Corporazione, pensai, ricordandomi che portavo la sciarpa di Basil. Non risposi niente, e quelli allora mi furono addosso e, ripiegando su un linguaggio comprensibile agli uomini comuni, dissero: — Che diavolo fate? Al vostro posto! Dobbiamo osservare, registrare, commentare!

— Vi sbagliate — dissi pacatamente. — Questo è lo scialle del vostro fratello Basil, che me l’ha lasciato in custodia. Non ho niente da fare, adesso.

— Una Vedetta! — gridarono all’unisono. Poi imprecarono, uno alla volta, e scapparono via. Io scoppiai a ridere e mi diressi verso il palazzo.

I cancelli erano spalancati. I neutri che prima presidiavano il portico esterno erano scomparsi, e con loro anche i due Classificatori. Gli infelici che prima affollavano la piazza si erano rifugiati nell’edificio stesso, per cercare riparo. Questo aveva infuriato i mendicanti professionisti, con regolare licenza ereditaria, che stazionavano abitualmente in quella parte dell’edificio e che si erano scagliati contro l’ondata di profughi con una ferocia e una forza insospettate. Vidi storpi che mulinavano le grucce come se fossero clave; ciechi che mandavano a segno colpi con una precisione da lasciare perplessi; umili penitenti che maneggiavano armi di ogni genere, dal pugnale alla pistola sonica. Mantenendomi estraneo a quella mischia vergognosa, mi infilai nei recessi del palazzo, sbirciando nelle cappelle dove vedevo Pellegrini che imploravano le benedizioni della Volontà e Comunicatori che cercavano disperatamente una guida spirituale per prevedere l’esito del prossimo conflitto.

Improvvisamente, si sentirono squilli di trombe e grida di: “Fate largo! Fate largo!”.

Un corteo di robusti Servitori entrò nel palazzo, puntando deciso verso le stanze del Principe, nell’abside. Parecchi di loro tenevano ferma una figuretta che si dibatteva freneticamente, scalciando e mordendo, le ali a metà dischiuse: Avluela! Io la chiamai, ma la mia voce fu coperta dal frastuono generale. Tentai di raggiungerla, ma i Servitori mi spinsero da parte, e il corteo sparì nell’appartamento reale; intravidi un’ultima volta la piccola Alata, fragile e pallida, nella stretta dei suoi guardiani; poi scomparve di nuovo.

Afferrai per il bavero un neutro dalla faccia inespressiva, che vagava, indeciso, sulla scia dei Servitori.

— Quella piccola Alata! Perché l’hanno portata qui?

— Lui… lui… loro…

— Parla!

— Il Principe… la sua donna… il suo cocchio… lui… loro… gli invasori…

Allontanai con una spinta quella creatura idiota e mi precipitai verso l’abside. Un muro di rame, alto più di dieci metri, mi si parò davanti. Mi gettai contro e lo tempestai di pugni. — Avluela! — urlai selvaggiamente. — Av… lu… eia!…

Non fui né scacciato, né ammesso. Fui semplicemente ignorato. Il baccano alle porte occidentali era dilagato ora nella navata e nelle corsie; poiché la marea tempestosa dei mendicanti avanzava nella mia direzione, girai sui tacchi e infilai una delle porte laterali del palazzo.