Выбрать главу

— No. Il sole è ancora alto sull’orizzonte.

— Come può essere? Le sue, sono solamente ali della notte. Il sole la farà cadere a terra.

Esitai. Non potevo spiegargli perché Avluela volasse di giorno, pur avendo solo ali della notte. Non potevo dire al Principe di Roum che, accanto a lei, volava, senz’ali, l’invasore Gormon, muovendosi scioltamente nell’aria, il braccio attorno alle esili spalle della ragazza, sostenendola, rassicurandola, aiutandola a vincere la pressione del vento solare. Non potevo dirgli che la sua nemesi volava, alta al di sopra della sua testa, insieme con l’ultima delle sue spose.

— Be’? — domandò lui. — Come fa a volare di giorno?

— Non so — dissi. — È un mistero anche per me. Ci sono molte cose, oggi, che non so più comprendere.

Il Principe sembrò accettare le mie parole. — Sì, Vedetta. Ci sono molte cose che nessuno di noi sa più comprendere.

E ricadde nel suo silenzio. Ardevo dalla voglia di chiamare Avluela, ma sapevo che non avrebbe potuto né voluto ascoltarmi. Così, continuai a camminare verso il tramonto, verso Perris, guidando il Principe cieco. Sopra di noi Gormon e Avluela si stagliarono nitidamente contro l’ultimo bagliore del giorno; poi salirono in alto, tanto in alto che li persi di vista.

PARTE SECONDA

Nel Collegio dei Ricordatori

9

Viaggiare con un Principe sconfitto non è facile. I suoi occhi se n’erano andati, ma non il suo orgoglio; l’accecamento non gli aveva affatto insegnato l’umiltà. Egli indossava abiti e maschera di Pellegrino, ma il suo animo albergava ben poca cortesia e nessuna pietà. Dietro quella maschera sapeva di essere il Principe di Roum.

Ora io costituivo l’intera sua corte, mentre si percorreva insieme la via per Perris nella precoce primavera. Lo guidavo lungo le strade giuste; lo divertivo a comando con racconti dei miei vagabondaggi; lo assistevo durante i periodi di profonda amarezza. In cambio di ciò ricevevo ben poco, all’infuori della sicurezza di poter mangiare con regolarità. Nessuno nega cibo a un Pellegrino, e in ciascun villaggio incontrato sul cammino facevamo sosta alle taverne, dove lui veniva sfamato e dove io pure, come suo compagno, ricevevo un pasto. Una volta, agli inizi del nostro viaggio, commise l’imprudenza di rivolgersi altezzosamente al locandiere: — Bada a nutrire anche il mio servo! — Il Principe accecato non poté vedere lo sguardo di stupita incredulità (perché, che bisogno aveva un Pellegrino di un servo?) ma io sorrisi al locandiere e gli strizzai l’occhio battendomi un dito sulla fronte; l’uomo comprese e ci servì senza discutere. In seguito spiegai al Principe l’errore, e da allora in poi egli parlò di me come del suo “compagno”. Eppure sapevo che per lui ero soltanto un servo.

Il clima era dolce. L’Eyrop si riscaldava col passare dei giorni. Salici sottili e pioppi rinverdivano ai lati della strada, benché, per la maggior parte, la via che faceva capo a Roum fosse costeggiata da alberi stellari, importati a caro prezzo durante i giorni spensierati del Secondo Ciclo; le loro foglie azzurre e lanceolate avevano resistito bene al debole inverno eyropeo. E ora anche gli uccelli tornavano dalla migrazione stagionale al di là del mare, in Afrik. Si rincorrevano veloci per il cielo, cantando, discutendo tra loro il mutamento avvenuto fra i padroni del mondo. — Mi scherniscono — disse il Principe un giorno, all’alba. — Mi mandano i loro canti e mi sfidano a vedere il loro splendore!

Oh, le sue parole erano amare, e a buon motivo. Lui che aveva posseduto tanto, e perso ogni cosa, aveva molto di cui lamentarsi. Per me, la sconfitta della Terra significava soltanto la fine di certe abitudini. Per il resto tutto era simile a prima: non avevo più bisogno di continuare la Vigilanza, ma vagabondavo ancora sulla faccia della Terra, solo anche quando, come ora, avevo un compagno.

Mi chiedevo se il Principe sapesse perché era stato accecato. Mi chiedevo se Gormon, nel momento del trionfo, gli avesse spiegato che quel che gli era costato gli occhi era una questione tanto elementare come la gelosia per una donna.

— Tu ti sei preso Avluela — forse gli aveva detto Gormon. — Hai veduto una piccola Alata e hai pensato che potevi trarne piacere. E le hai detto: “Su, ragazza, vieni nel mio letto”. Senza pensare a lei come a una persona. Senza pensare che lei poteva preferire un altro. Pensando soltanto come il Principe di Roum poteva pensare… con imperiosità. Ecco, dunque, Principe!

…e il rapido scatto di quelle lunghe dita, forcute e appuntite…

Ma non osavo interrogarlo. Tanto era il timore reverenziale che ancora rimaneva in me per quel monarca sconfitto. Penetrare nel suo intimo, intavolare con lui una conversazione sulle sue disgrazie come se fosse stato un normale compagno di viaggio… no, non potevo. Parlavo quando lui mi parlava. Offrivo la mia conversazione a comando. Negli altri momenti me ne restavo in silenzio, come ogni persona comune in presenza di un sovrano.

Pure, c’era ogni giorno qualcosa che veniva a ricordarci che il Principe di Roum non era più un sovrano.

Sopra di noi passavano gli invasori, a volte su zattere gravitazionali o con altri mezzi, a volte librandosi per forza propria. Il traffico era intenso. Stavano facendo l’inventario del loro mondo. Le loro ombre passavano su di noi come brevissime eclissi, e io alzavo gh occhi per vedere i nostri nuovi padroni, e, stranamente, non provavo ira verso gli invasori, soltanto un’ondata di sollievo all’idea che la lunga vigilia della Terra fosse finita. Per il Principe era diverso. Sembrava avvertire ogni volta il loro passaggio sopra di noi, e serrava allora i pugni, aggrottando le ciglia invisibili e mormorando oscure maledizioni. Forse i suoi nervi ottici registravano ancora in qualche modo il movimento delle ombre? Oppure i sensi che gli rimanevano s’erano talmente acuiti, con la perdita della vista, da permettergli di percepire il debole ronzio di una zattera o l’odore della pelle degli invasori nel cielo? Non glielo chiesi. Non gli chiedevo quasi nulla.

A volte, di notte, quando credeva che io dormissi, il Principe singhiozzava. In quei momenti avevo pietà di lui. In fondo era così giovane, per perdere tutto ciò che aveva posseduto. Imparai in quelle ore di tenebra che perfino i singhiozzi di un Principe non sono simili a quelli di una persona comune. Singhiozzava con tono di sfida, irosamente, con rabbia. Ma singhiozzava.

Per buona parte del tempo pareva stoico, rassegnato alle proprie perdite. Al mio fianco il suo incedere era vivace e sicuro, un passo dietro l’altro, e ogni passo ci allontanava sempre più dalla grande città di Roum, avvicinandoci a Perris. Di tanto in tanto, però, mi pareva di poter scorgere oltre la griglia di bronzo della maschera la sua anima di ghiaccio. La sua rabbia repressa si rivelava con sfoghi ben miseri. Mi scherniva per la mia età, per la mia casta inferiore, per l’inutilità della mia esistenza ora che l’invasione per la quale avevo tanto Vigilato era venuta. Giocava crudelmente con me.

— Dimmi il tuo nome, Vedetta!

— È proibito, Maestà.

— Le vecchie leggi sono ora abrogate. Avanti, vecchio, dobbiamo viaggiare ancora per mesi insieme. Devo continuare a chiamarti Vedetta per tutto questo tempo?

— È la regola della mia Corporazione.

— La regola della mia — proruppe lui — è di dare ordini e di far sì che vengano obbediti. Il tuo nome!

— Neppure la Corporazione dei Dominatori può conoscere il nome di una Vedetta senza un giusto motivo e un ordine del nostro Maestro.

Il Principe sbuffò. — Che razza di iena sei, a sfidarmi ora che sono in queste condizioni! Se fossimo stati nel mio palazzo, non avresti mai osato!

— Nel vostro palazzo, Maestà, non mi avreste mai posto una richiesta così ingiusta dinanzi alla vostra corte. Anche i Dominatori hanno dei doveri. E uno di questi consiste nel rispettare le consegne delle Corporazioni inferiori.