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Ricordavo quel giorno a Roum, quando la portantina del Principe era uscita dal palazzo e il Principe aveva scorto Avluela, e l’aveva ordinata a sé, portandola oltre le cortine per abusare di lei. Un Dominatore può comandare a quel modo le persone che gli sono inferiori; ma un Pellegrino no, e ora temevo i progetti del Principe Enric. Si toccò ancora gli occhi. I muscoli del suo viso fremevano.

— Promettetemi che non le procurerete dei fastidi — gli dissi.

L’angolo della sua bocca si incurvò in quel che doveva essere l’inizio di una risposta irritata, subito soffocata. Con sforzo disse: — Tu mi fai torto, vecchio. Qui mi atterrò alle leggi dell’ospitalità. Ora sii gentile e versami altro vino, vuoi?

Picchiettai sulla nicchia di servizio e ottenni un altro fiasco di vino. Era vino rosso e robusto, non quello dorato di Roum. Versai; bevemmo; in breve il fiasco fu vuoto. Lo presi per le linee di polarità e gli diedi la giusta torsione: il fiasco svanì con uno schiocco, come una bolla di sapone. Qualche istante dopo, fece il suo ingresso il Ricordatore Olmayne. Si era mutata d’abito; mentre prima indossava un abito da pomeriggio dalla tinta opaca, di tessuto ruvido, ora portava un vestito lungo, scarlatto, affibbiato fra i seni. Le superfici e le ombre del suo corpo erano pienamente visibili, e fui sorpreso nel vedere che aveva preferito tenersi l’ombelico. Le interrompeva la dolce curva declinante del ventre con un effetto così artatamente inteso a eccitare che perfino io me ne sentii quasi acceso.

Mi disse, compiaciuta: — La vostra richiesta è stata accolta sotto la mia garanzia. Sarete sottoposto agli esami questa notte. Se li supererete, verrete assegnato alla nostra divisione. — I suoi occhi luccicarono di improvvisa malizia. — Mio marito, come avrete immaginato, non ne è molto soddisfatto. Ma l’insoddisfazione di mio marito non è pericolosa. Venite con me, tutt’e due.

Tese verso di noi le mani, prendendo la mia, prendendo quella del Principe. Le sue dita erano fredde. Mi sentivo pulsare di una febbre interiore: mi meravigliai di quel segno di nuova giovinezza che si destava in me… senza bisogno delle acque della Casa del Rinnovamento, nella sacra Jorslem.

— Venite — disse Olmayne, e ci guidò al luogo dell’esame.

11

Così venni ammesso nella Corporazione dei Ricordatori.

Gli esami erano del tutto superficiali. Olmayne ci guidò fino a una sala circolare nelle parti più alte della torre. Le sue pareti ricurve erano intarsiate con legni rari di molti colori; banchi lucenti spuntavano dal pavimento, e al centro della sala s’alzava una spirale alta come un uomo, ricoperta di lettere troppo minuscole per poterle leggere. Una mezza dozzina di Ricordatori bighellonava tutt’intorno; era chiaro ch’erano venuti solo per il capriccio di Olmayne e che non s’interessavano affatto a quella vecchia e cenciosa Vedetta per la quale lei, così inspiegabilmente, si era fatta garante.

Mi fu tesa una cuffia pensante. Una voce stridula mi pose una dozzina di domande attraverso la cuffia, sondando le mie risposte tipo e insistendo sui particolari biografici. Diedi il mio numero di Corporazione, così da permettere di contattare il Maestro locale, controllare le mie referenze e ottenere il mio scioglimento. Normalmente non si poteva ottenere lo scioglimento dai voti di Vedetta, ma quelli non erano tempi normali, e sapevo che la mia Corporazione era ridotta a pezzi.

In un’ora fu tutto concluso. Olmayne in persona mi pose la sciarpa sulle spalle.

— Vi verrà assegnato un alloggio accanto al nostro appartamento — disse. — Dovrete rinunciare al vostro abito da Vedetta; ma il vostro amico potrà conservare il suo da Pellegrino. Il vostro addestramento avrà inizio dopo un periodo di prova. Nel frattempo vi sarà consentito libero accesso a tutti i nostri serbatoi memoria. Comprenderete, spero, che occorreranno dieci anni o più prima che voi possiate ottenere piena ammissione nella Corporazione.

— Lo so — dissi.

— D’ora in poi vi chiamerete Tomis — mi disse Olmayne. — Non ancora il Ricordatore Tomis, ma Tomis dei Ricordatori. C’è differenza. Il vostro nome precedente non ha più valore.

Io e il Principe fummo condotti alla piccola stanza che dovevamo dividere. Era un luogo piuttosto modesto, ma conteneva servizi d’igiene personale, collegamenti per cuffie pensanti e altri mezzi d’informazione, e una bussola per gli alimenti. Il Principe Enric girò per la stanza, toccando ogni cosa e imparandone la disposizione. Stipi, letti, sedie, armadi e altri mobili fuoriuscivano e rientravano nelle pareti mentre lui si arrabattava sui controlli. Dopo un po’ la sua curiosità si placò; senza più dover andare a tastoni, attivò un letto: un fascio rutilante prese forma da una fenditoia. Si distese.

— Dimmi una cosa, Tomis dei Ricordatori.

— Sì?

— Per saziare una curiosità che ancora mi divora. Qual era il tuo nome nella vita precedente?

— Ora non ha più valore.

— Nessun voto ti obbliga più alla segretezza. Vuoi contrastarmi ancora?

— Le vecchie abitudini mi costringono sempre — dissi. — Per un tempo pari a due volte la vostra vita sono stato condizionato a non rivelare mai il mio nome se non legittimamente.

— Dimmelo ora.

— Wuellig — dissi.

Quell’atto, una volta commesso, risultò stranamente liberatorio. Il mio nome precedente sembrò librarsi nell’aria dinanzi alle mie labbra; parve sfrecciare per la stanza come un uccello gemma liberato dalla prigionia, volteggiare, girarsi con un repentino colpo d’ala e colpire la parete frantumandosi in mille pezzetti con un suono leggero, tintinnante. Tremai. — Wuellig — dissi ancora. — Il mio nome era Wuellig.

— Wuellig non è più.

— Tomis dei Ricordatori.

Ed entrambi cominciammo a ridere, continuando fino a sentirci male, e il Principe accecato si levò in piedi e batté la mano contro la mia in segno di grande amicizia, e gridammo il suo nome e il mio di nuovo e poi ancora, come bimbi che di colpo avessero appreso parole ricche di forza, solo per scoprire subito che quelle parole non ne avevano affatto.

Così cominciai la mia nuova vita fra i Ricordatori.

Per qualche tempo non lasciai neppure per un momento il Collegio. I miei giorni e le mie notti erano interamente occupati, e io rimanevo ancora straniero a Perris. Anche il Principe, sebbene le sue ore non fossero piene come le mie, rimaneva quasi sempre nel palazzo, uscendo soltanto quando la noia o la collera lo sopraffacevano. A volte il Ricordatore Olmayne andava con lui, oppure lui andava con lei, in modo da non essere lasciato solo nella sua oscurità; ma sapevo anche che a volte il Principe lasciava il palazzo senza compagnia, con l’orgogliosa intenzione di dimostrare che, pur senza vista, egli poteva far fronte ai pericoli della città.

Le mie ore di veglia erano suddivise fra queste attività:

a) Orientamenti preliminari.

b) Piccoli doveri di un apprendista.

c) Ricerche personali.

Non che non me lo aspettassi, ma scoprii di essere molto più vecchio degli altri apprendisti che frequentavano il Collegio. Per la maggior parte si trattava di giovincelli, figli dei Ricordatori stessi; mi squadravano increduli, incapaci di capire come potesse essere loro compagno di studi un barbogio simile. C’erano anche alcuni apprendisti d’età appena matura, per lo più persone che si erano scoperte, già avanti nella vita, la vocazione per il Ricordare, ma nessuno di essi sfiorava neppure lontanamente la mia età. Perciò ebbi scarsi contatti con i miei compagni d’addestramento.

Ogni giorno, per alcune ore, studiavamo le tecniche delle quali si servono i Ricordatori per catturare il passato della Terra. Tutt’occhi, fui condotto per i laboratori dove si effettuano le analisi dei campioni prelevati in situ; vidi i rivelatori che misurando la disintegrazione di pochi atomi attribuivano un’età a un manufatto; osservai raggi multicolori di luce che, aguzzi come aghi, uscendo da una sottile corona, riducevano in cenere una scheggia di legno e la costringevano a cedere i suoi segreti; vidi le immagini stesse degli eventi passati staccarsi come bucce dagli oggetti inanimati. Dovunque andiamo, noi lasciamo la nostra impronta: le particelle luminose rimbalzano dal nostro viso, e il flusso fotonico le inchioda all’ambiente che ci circonda. Da qui i Ricordatori le strappano, le riordinano, le fissano. Entrai in una camera dove una fantasmagoria di volti galleggiava su una nebbia azzurra e untuosa: sovrani e Maestri di Corporazioni scomparsi, duchi dimenticati, eroi di giorni antichi. Contemplai tecnici dagli occhi freddi pungolare via la storia da poche manciate di materia combusta. Vidi umidi grumi di rifiuti narrare racconti di rivolte e assassinii, di mutamenti culturali, di trasformazioni di costumi.