Выбрать главу

Dato che il processo è irreversibile, io e Olmayne non potevamo fare nulla di veramente utile, se non offrire conforto a quella gente ignorante e spaventata. Mi accorsi subito che il morbo si era impossessato da tempo del villaggio. C’erano persone a ogni stadio della malattia, dalle prime squamosità alla cristallizzazione definitiva. Erano divisi nella capanna a seconda dell’intensità del male. Sulla sinistra avevo un triste gruppo di vittime recenti, ben coscienti di sé, che si grattavano morbosamente le braccia contemplando l’orrore che li attendeva. Lungo la parete posteriore erano allineati cinque pagliericci su cui giacevano indigeni dalla pelle indurita, nella fase profetica. Sulla destra potevo scorgere i vari gradi di cristallizzazione, e di fronte avevo la gemma del gruppo: un uomo che senza dubbio era giunto alle ultime ore di vita. Il suo corpo, incrostato da falsi smeraldi e rubini e opali, splendeva di una bellezza dolorosa; si muoveva appena; entro quel guscio di colori stupendi egli era perso in chissà quale sogno d’estasi, e forse trovava alla fine dei suoi giorni più passione, più gioia, di quanta ne avesse conosciuta in tutti gli anni della sua dura esistenza di contadino.

Olmayne si trasse indietro dalla porta.

— È orribile — mormorò. — Non voglio entrare!

— Lo dobbiamo. Ricordate i nostri obblighi.

— Non ho mai desiderato fare la Pellegrina!

— Però volevate ottenere il perdono dei vostri peccati — le ricordai. — Dovete guadagnarvelo.

— Prenderemo la malattia!

— La Volontà può raggiungerci ovunque con questa infezione, Olmayne. Lo sapete che il morbo colpisce a caso. In questa capanna non corriamo più pericoli di quanti ne correvamo a Perris.

— Perché, allora, questo villaggio è tanto colpito?

— Il villaggio conosce ora lo sfavore della Volontà.

— Con che sicurezza seguite le strade del misticismo, Tomis — disse lei, acidamente. — Vi avevo mal giudicato. Vi credevo un uomo intelligente. Questo vostro fatalismo è spaventoso.

— Ho visto la distruzione del mio mondo — le dissi. — Ho contemplato la rovina del Principe di Roum. Le grandi tragedie favoriscono atteggiamenti come il mio. Entriamo, Olmayne.

Entrammo, e Olmayne era ancora riluttante. Adesso anch’io ero assalito dalla paura, ma la ricacciai. Nella discussione con l’adorabile Pellegrina che era mia compagna di viaggio ero stato quasi presuntuoso nella mia ostentazione di fede, ma ora non potevo negare l’improvviso guizzo di terrore.

Mi costrinsi alla calma.

Ci sono redenzioni e redenzioni, mi dissi. Se questa malattia deve essere la fonte della mia, m’inchino alla Volontà.

Forse anche Olmayne, mentre entravamo, giunse a una decisione simile, o forse il suo innato istinto d’attrice drammatica la precipitò nell’indesiderato ruolo della dama di carità. Visitò con me la “corsia”. Passammo di giaciglio in giaciglio a testa china, la pietra di stella in mano. Pronunciammo parole. Sorridemmo quando le vittime ai primi stadi ci chiesero un gesto di conforto. Pregammo. Olmayne si fermò davanti a una ragazza nella seconda fase, i cui occhi si stavano già coprendo di uno strato corneo, e s’inginocchiò e toccò le sue guance scagliose con la pietra di stella. La ragazza parlava per oracoli, e, sfortunatamente, in un linguaggio che non comprendevamo.

Alla fine giungemmo dal caso più avanzato, l’uomo su cui già cresceva il suo magnifico sarcofago. Non so come, ma ormai la paura era scomparsa, e lo stesso accadeva a Olmayne: per molto tempo restammo immobili, silenziosi, di fronte a quello spettacolo grottesco, e poi lei mormorò: — Com’è terribile! E meraviglioso! E bello!

Altre tre capanne come quella ci attendevano.

Gli abitanti del villaggio si radunavano sulla soglia. Quando noi due apparivamo sul limitare di una capanna, le persone sane si prostravano davanti a noi, afferravano i lembi del nostro mantello, ci chiedevano con voce stridula di intercedere per loro presso la Volontà. Noi rispondevamo con le parole che ci sembravano più adatte, e in noi non c’era menzogna. Coloro che si trovavano all’interno delle capanne accettavano senza emozioni le nostre parole, quasi avessero capito che per loro non c’erano più speranze; coloro che si trovavano all’esterno, non ancora sfiorati dal male, pendevano dalle nostre labbra. Il capo del villaggio (un capo momentaneo, perché il vero capo era cristallizzato) non smetteva di ringraziarci, come se avessimo fatto qualcosa di concreto. Ma almeno avevamo recato conforto, il che non è da disprezzare.

Quando uscimmo dall’ultima casa del pianto, ci accorgemmo di un’esile figura che ci fissava da lontano: il Diverso Bernalt. Olmayne mi diede un colpetto.

— Quella creatura ci ha seguiti, Tomis. Dal Ponte di Terra fino a qui!

— Anche lui viaggia verso Jorslem.

— Sì, ma che bisogno ha di fermarsi qui? Perché in un posto così spaventoso?

— Zitta, Olmayne. Cercate di trattarlo come si deve.

— Un Diverso?

Bernalt s’avvicinò. Il mutante era chiuso in una morbida veste bianca che attenuava la stranezza del suo aspetto. Accennò con aria triste in direzione del villaggio e disse: — Una grande tragedia. La Volontà è stata dura con questo luogo.

Spiegò di essere arrivato diversi giorni prima, e di aver incontrato un amico della sua città natale, Nayrob. Credevo si riferisse a un Diverso, ma no, l’amico di Bernalt era un Chirurgo, ci raccontò, che si era fermato lì per aiutare quant’era possibile i contadini malati. L’idea che esistesse amicizia tra un Diverso e un Chirurgo mi sembrava piuttosto strana; Olmayne, che non si preoccupava di nascondere il suo disprezzo per Bernalt, la trovò senz’altro sconveniente.