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Quando uscimmo, intorno all’edificio ci attendevano altri Diversi, tutti appartenenti a quella comunità del deserto. Erano un gruppo di incubi, con pelle d’ogni consistenza e colore, tratti fisionomici disposti a casaccio, organi e altre parti del corpo all’insegna dell’improvvisazione genetica. Bernalt stesso, nonostante fosse loro fratello, parve sgomentato da quelle mostruosità. Gli altri lo fissavano con reverenza. Qualcuno di loro, quando ci vide, cercò d’impugnare le armi, ma, con un ordine imperioso, rimise tutto a posto Bernalt.

Poi ci disse: — Mi spiace che siate stati trattati a questo modo, e che lo straniero sia morto. Ma, naturalmente, è pericoloso entrare in un luogo sacro a gente primitiva e violenta.

— Non ne avevamo idea — rispose il Chirurgo. — Non saremmo entrati se avessimo saputo…

— Naturalmente. Naturalmente. — C’era forse un che di paternalistico nel tono dolce, signorile di Bernalt? — Be’, vi dico di nuovo arrivederci.

— No — esclamai d’improvviso. — Viaggiate con noi fino a Jorslem! È ridicolo dirigersi separatamente alla stessa meta.

Olmayne boccheggiò. Anche il Chirurgo sembrò stupito. Solo Bernalt rimase calmo, e disse: — Scordate, amico, che è sconveniente per un Pellegrino viaggiare con chi non ha Corporazione. D’altronde, io sono qui per offrire le mie preghiere a questo tempio, e dovrò fermarmi un po’. Non vorrei farvi tardare. — La sua mano si tese a incontrare la mia. Poi si allontanò, scomparendo nell’antica Clinica. I suoi compagni Diversi gli tennero precipitosamente dietro. Ero grato a Bernalt del suo tatto: la mia impulsiva offerta di compagnia, per quanto sincera, non poteva essere accettata.

Raggiungemmo la nostra carromobile. Dopo qualche momento udimmo un suono spaventoso: lo stonato canto dei Diversi in onore di una divinità che non oso immaginare; un inno spezzato, lacerante, stridulo, deforme come coloro che lo intonavano.

— Bestie orribili! — mormorò Olmayne. — Un luogo sacro! Un tempio dei Diversi! Che cosa spaventosa! Potevano ucciderci tutti, Tomis. Com’è possibile che mostri simili abbiano una religione?

Non le risposi. Il Chirurgo fissò tristemente Olmayne e scosse il capo, come perplesso da tanta mancanza di carità in una donna che asseriva d’essere una Pellegrina.

— Anche loro sono creature umane — disse poi.

Alla prima città che incontrammo lungo la strada segnalammo la morte dell’alieno alle autorità d’occupazione. Poi, tristi e silenziosi, noi tre sopravvissuti proseguimmo il cammino, verso la terra dove la costa marina si piega a nord anziché a est. Ci stavamo lasciando alle spalle il sonnolento Agupt; entravamo adesso nei confini della regione dove sorge la città santa di Jorslem.

22

La città di Jorslem si trova nell’interno, a una certa distanza dal Lago Medit, su un arioso altipiano protetto da una catena di montagne basse, addossate l’una all’altra e spoglie di vegetazione. Mi sembrava che tutta la mia vita non fosse stata altro che una preparazione al primo sguardo su quell’aurea città, di cui conoscevo tanto bene l’immagine. E così, quando vidi sorgere a est le sue guglie e le sue mura, provai, più che uno stupore reverenziale, l’impressione di tornare a casa dopo tanti anni.

Una strada serpeggiante ci portò dalle montagne alla città, le cui mura erano fatte di blocchi di pietra finissima, squadrata, di colore rosa scuro dorato. Anche le case e i templi erano della medesima pietra. Giardinetti alberati delimitavano la strada, e non si trattava di alberi importati dalle stelle ma di veri prodotti della nostra Terra, come si addiceva a quella città: la più antica costruita dall’uomo; più antica di Roum, più antica di Perris, le origini di Jorslem si perdono nel Primo Ciclo.

Gli invasori, saggiamente, non s’erano intrufolati nell’amministrazione di Jorslem. La città restava sotto il controllo del Maestro della Corporazione dei Pellegrini, e anche un invasore doveva richiedere il suo permesso per entrare. Naturalmente, era solo questione di forma: il Maestro dei Pellegrini, come il Cancelliere dei Ricordatori e tutte le autorità del genere, era in realtà un burattino obbediente ai voleri dei conquistatori. Ma la cruda verità di quel fatto restava nascosta. Gli invasori avevano riservato a Jorslem un trattamento speciale, e almeno non li avremmo visti ciondolare a gruppi armati per le strade della città santa.

Giunti alle mura esterne, presentammo alla Sentinella del cancello una formale richiesta d’ingresso. Anche se altrove molte sentinelle non avevano più lavoro, dato che i nuovi padroni avevano ordinato di lasciare sempre spalancate le porte delle città, quest’uomo era in completa divisa della sua Corporazione, e con grande calma ci sottopose ai rituali della normale procedura. Io e Olmayne, nella nostra qualità di Pellegrini, avevamo automaticamente il diritto di entrare a Jorslem; ma lui volle vedere le pietre di stella, per sincerarsi che la veste e la maschera non fossero un inganno, e poi s’infilò una cuffia pensante per controllare i nostri nomi nell’archivio della Corporazione. In breve tempo ottenemmo il permesso. Il Chirurgo che viaggiava con noi se la sbrigò ancora più in fretta: si era premurato di chiedere in anticipo, quando era ancora in Afrik, l’autorizzazione, e dopo un minuto per il controllo della sua identità fu lasciato passare.

Dentro le mura, ogni cosa aveva l’aspetto di un’immensa antichità. Solo Jorslem, fra tutte le città del mondo, conserva ancora buona parte dell’architettura del Primo Ciclo: non semplici colonne decapitate e acquedotti in rovina, come Roum, ma intere strade, portici coperti, torri, viali che hanno resistito a tutti gli sconvolgimenti sofferti dal nostro pianeta. E così, una volta entrati in città, vagammo stupefatti tra le sue meraviglie, giù per strade pavimentate di ciottoli, lungo strettissimi vicoli pieni di bambini e di mendichi, attraverso mercati fragranti di spezie. Dopo un’ora di quel vagabondaggio decidemmo che era tempo di trovarci una sistemazione, e fummo costretti a dividerci dal Chirurgo poiché gli era vietato fermarsi a un ostello di Pellegrini, e per noi, alloggiare altrove sarebbe stato inutilmente costoso. Lo accompagnammo alla locanda dove aveva già prenotato una stanza. Lo ringraziai per la compagnia che ci aveva offerto durante il viaggio, e lui ringraziò noi con la stessa serietà, esprimendo l’augurio di rivederci nei prossimi giorni. Poi io e Olmayne ce ne andammo. Ci ospitò uno dei tanti edifici che a Jorslem sono privilegio dei Pellegrini.

La città esiste unicamente per servire i Pellegrini e i turisti, ed è pertanto un solo immenso ostello; qui i Pellegrini avvolti nel saio sono comuni come gli Alati in Ind. Ci fermammo un attimo a riposare; poi cenammo e più tardi, camminando lungo una strada spaziosa, ci fu possibile vedere a est il quartiere interno di Jorslem, quello più sacro. È come se ci fossero due città, incastonate l’una nell’altra. La parte più antica, così minuscola che a piedi la si può percorrere in meno d’un’ora, è chiusa da un’alta cinta di mura. All’interno si trovano i templi venerati dalle vecchie religioni terrestri: i Cristani, gli Ebarii, i Mislami. Si dice che sia qui anche il luogo dove morì il dio dei Cristani, ma forse si tratta solo di una distorsione dovuta al tempo, perché che tipo di dio può essere, se muore? Su un piccolo rilievo in un angolo della Città Vecchia sorge la cupola dorata sacra ai Mislami, gelosamente accudita dalla gente di Jorslem. E sul davanti di quel poggio si trovano le pietre grigie, massicce, di un muro adorato dagli Ebarii. Tutte queste cose rimangono, ma le idee che le sorreggevano sono andate perse; quando ero tra i Ricordatori, non ero mai riuscito a trovare un solo studioso capace di spiegarmi che valore possa avere l’adorazione di un muro o di una cupola dorata. Eppure gli antichi documenti ci assicurano che queste tre fedi del Primo Ciclo avevano grande profondità e ricchezza d’idee.