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Se continuo così, non riuscirò mai a costruire la Città di Cristallo, pensò Alvin, perché non riuscirò mai a insegnare a nessuno l’arte della Creazione.

Doveva trascorrere qualche settimana prima che Alvin tentasse di nuovo di parlare a qualcuno, per capire se poteva veramente insegnare a creare. Avvenne di domenica, a casa di Measure, dove Alvin e Arthur Stuart erano stati invitati a pranzo. Era una giornata molto calda, per cui Delphi aveva preparato un piatto freddo — pane, formaggio, prosciutto e tacchino affumicato — e poi tutti quanti erano usciti a conversare all’ombra della veranda che Measure aveva costruito sulla facciata nord, dalla parte della cucina.

«Alvin, se vi ho invitati a pranzo oggi è per un motivo» esordì Measure. «Io e Delphi ne abbiamo già parlato, e abbiamo fatto quattro chiacchiere anche con mamma e papà.»

«Se ci sono voluti tanti discorsi, dev’essere proprio qualcosa di tremendo.»

«Forse no» disse Measure. «È solo… Ecco, Arthur Stuart è un bravissimo ragazzo, e un gran lavoratore, e per giunta anche un tipo di buona compagnia.»

Arthur Stuart sorrise. «E dormo come un sasso» aggiunse.

«Un autentico ghiro» confermò Measure. «Ma papà e mamma ormai non sono più tanto giovani. E penso che in cucina mamma sia abituata a fare le cose a modo suo.»

«Puoi ben dirlo» sospirò Delphi, con il tono di chi conosceva fin troppo bene il carattere abitudinario della signora Miller.

«E papà, be’, comincia a mostrare la corda. Quando torna a casa dal mulino ha bisogno di stendersi sul divano e non sopporta più l’eccessiva confusione.»

Alvin credette di capire dove quella conversazione sarebbe andata a parare. Forse i suoi familiari non erano all’altezza della vecchia Peg Guester e di Gertie Smith. Forse non erano in grado di accogliere in casa e nel cuore un piccolo mulatto. Pensare una cosa simile dei suoi genitori e dei suoi fratelli lo rattristava, ma ne concluse immediatamente che non si sarebbe opposto. Lui e Arthur Stuart avrebbero semplicemente fatto fagotto e avrebbero preso la strada per… nessun posto in particolare. Forse il Canada. Un posto in cui un piccolo mulatto potesse essere davvero il benvenuto.

«Bada, non è che a me abbiano detto qualcosa» riprese Measure. «In realtà, quando ci siamo visti, ho parlato quasi sempre io. Insomma, Delphi e io abbiamo una casa fin troppo grande per le nostre necessità, e con tre bambini piccoli Delphi sarebbe contentissima di avere un ragazzo dell’età di Arthur Stuart che potesse darle una mano in cucina.»

«So fare il pane da solo» intervenne Arthur Stuart. «So a memoria la ricetta della mamma. La mia mamma morta.»

«Capisci?» fece Delphi. «Se qualche volta il pane potesse davvero farlo lui, o almeno aiutarmi con l’impasto, io non arriverei alla domenica completamente distrutta come succede adesso.»

«E tra non molto Arthur Stuart sarebbe abbastanza grande per darmi una mano nei campi» concluse Measure.

«Ma non devi credere che penseremmo a lui come a una specie di servitore» disse Delphi.

«No, no!» esclamò Measure. «No, vorremmo pensare a lui cornea un altro figlio, solo più grande del. mio Jeremiah, che ha tre anni e mezzo, e perciò come essere umano non vale ancora granché, anche se per lo meno non tenta in continuazione di buttarsi nel fiume come sua sorella Shiphrah… o come te quand’eri piccolo, se non ricordo male.»

Arthur Stuart si mise a ridere. «Alvin una volta ha cercato di annegare anche me» disse. «Cacciandomi a testa sotto nell’Hio.»

Alvin era al colmo della vergogna. Per una quantità di motivi. Prima di tutto per non aver mai raccontato a Measure l’intera storia di come aveva salvato Arthur Stuart dai Cacciatori; e poi per aver pensato, sia pure per un solo istante, che Measure, papà e mamma avessero intenzione di liberarsi del piccolo mulatto, mentre invece si stavano accapigliando perché ciascuno avrebbe voluto tenerlo con sé.

«Credo che tocchi ad Arthur Stuart decidere con chi vuole abitare, visto che è stato invitato» fece Alvin. «È arrivato qui con me, ma questo non vuol dire che io possa decidere al suo posto.»

«Posso restare qui?» chiese Arthur Stuart. «Cal non mi può sopportare.»

«Cal ha problemi per conto suo» gli spiegò Measure. «Ma anche lui ti vuole bene.»

«Perché Alvin non ha portato a casa qualcosa di utile, per esempio un cavallo?» disse Arthur Stuart. «Come quantità di cibo, siamo lì, ma scommetto che non è capace di tirare nemmeno un calessino a due ruote.»

Measure e Delphi risero. Arthur Stuart aveva sicuramente ripetuto parola per parola qualcosa che gli era stato detto da Cal. Arthur Stuart lo faceva in continuazione, tanto che tutti ormai avevano imparato ad apprezzare la sua perfetta memoria. Ma Alvin nell’udirlo si rattristava, perché sapeva che solo qualche mese prima Arthur Stuart avrebbe pronunciato quelle parole con la voce di Cal, tanto che, senza guardarlo, nemmeno sua madre avrebbe potuto distinguerlo da Cal.

«Alvin, perché non vieni anche tu ad abitare con Measure?» chiese Arthur Stuart.

«Sì, ecco, in effetti ci avevamo pensato» intervenne Measure. «Perché non vieni anche tu a stare da noi, Alvin? Per qualche tempo potremmo sistemarti qui, nella stanza grande al pianterreno. E, quando avremo finito i lavori dell’estate, potremmo sistemare la nostra vecchia capanna di tronchi: è ancora in buone condizioni, visto che l’abbiamo lasciata solo due anni fa. A quel punto sarai indipendente. Penso che ormai tu sia troppo grande per vivere in casa di tuo padre e mangiare alla tavola di tua madre.»

Be’, Alvin non l’avrebbe mai immaginato, ma tutt’a un tratto si ritrovò con gli occhi pieni di lacrime. Forse era la pura e semplice gioia che qualcuno si fosse accorto che non era più lo stesso Alvin Miller Junior d’un tempo. O forse era il fatto che si trattasse proprio di Measure, che si prendeva cura di lui come ai vecchi tempi. A ogni modo, fu solo in quel momento che Alvin ebbe la sensazione di essere veramente tornato a casa.

«Certo che posso venirci, se mi volete» mormorò.

«Guarda che non c’è motivo di mettersi a frignare» scherzò Delphi. «Ho già tre impiastri che scoppiano in lacrime a ogni piè sospinto. Non ho nessuna intenzione di venire ad asciugarti gli occhi e soffiarti il naso come a Keturah.»

«Be’, almeno non dovremo cambiargli i pannolini» disse Measure, e lui e Delphi scoppiarono a ridere come se quella fosse la cosa più divertente che avessero mai udito. In realtà ridevano di gioia per la commozione di Alvin all’idea di stare da loro.

Perciò Alvin e Arthur Stuart si trasferirono a casa di Measure, e Alvin tornò pian piano ad avvicinarsi al più amato dei suoi fratelli. Tutto ciò che Alvin una volta aveva amato era ancora presente in Measure uomo; eppure in lui c’era anche qualcosa di nuovo. La tenerezza che mostrava verso i suoi figli, anche dopo averli sculacciati o rimbrottati. La cura con cui si occupava delle terre e degli edifici, prendendo mentalmente nota di tutto quello che doveva fare e poi facendolo, cosicché non c’era porta che continuasse a cigolare per due giorni di seguito, né bestia che rifiutasse di mangiare per una giornata senza che Measure cercasse di capire che cosa ci fosse che non andava.

Ma soprattutto Alvin vedeva il modo in cui Measure si comportava con Delphi. Quest’ultima non era particolarmente graziosa, né del resto particolarmente brutta; era sana e forte e la sua risata pareva il raglio d’un somaro. Eppure Measure la guardava come se fosse la creatura più affascinante della terra. Lei alzava lo sguardo e si vedeva di fronte Measure con una specie di sorriso sognante sulla faccia, e allora rideva o arrossiva oppure distoglieva lo sguardo, comunque per qualche minuto si muoveva in maniera più aggraziata, magari camminando sulla punta dei piedi come se ballasse o fosse in procinto di spiccare il volo. Alvin si chiedeva se mai avrebbe potuto rivolgere alla signorina Larner uno sguardo simile, capace d’infondere in lei una gioia tale da non riuscire quasi a restare attaccata a terra.