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La notte Alvin restava a lungo sveglio nel suo letto, avvertendo ogni minimo movimento della casa, comprendendo anche senza far ricorso ai suoi poteri a che cosa fosse dovuto quel lento, ritmico cigolio; e in quei momenti ricordava il viso della donna chiamata Margaret che si era celata per tutti quei mesi sotto le fattezze della signorina Larner, e immaginava il viso di Margaret vicino al proprio, con le labbra socchiuse, mentre dalla sua gola si levavano gli stessi gemiti di piacere che egli udiva sfuggire a Delphi nel silenzio della notte. Poi rivedeva lo stesso viso come l’aveva visto l’ultima volta, stravolto dal dolore e con gli occhi arrossati dal pianto. In quei momenti si sentiva stringere il cuore, e avrebbe desiderato con tutto se stesso tornare da lei, stringerla fra le braccia, e trovare dentro di lei un qualche luogo segreto per guarirla, lenire la sua sofferenza, renderla di nuovo intera.

E siccome Alvin ora stava a casa di Measure, le sue cautele pian piano vennero meno, e il suo viso ricominciò a esprimere i suoi veri sentimenti. Una sera che Measure e Delphi si erano scambiati uno dei loro sguardi, a Measure capitò di scorgere l’espressione trasognata di Alvin. I bambini erano a letto da un pezzo, cosicché Measure si sentì autorizzato a chinarsi in avanti per toccare il ginocchio di Alvin.

«Chi è?» chiese Measure.

«Chi?» fece Alvin, sconcertato.

«La donna che ami al punto che ti basta pensare a lei per restare senza fiato.»

Alvin esitò un istante, per pura forza dell’abitudine. Poi le cateratte si aprirono, e l’intera storia si riversò fuori. Il giovane esordì parlando della signorina Larner, e del fatto che in realtà si trattava di Margaret, la piccola fiaccola di cui tante volte aveva narrato Scambiastorie, quella che proteggeva Alvin da lontano. Tuttavia, nel raccontare la storia del suo amore per lei, gli venne spontaneo parlare di tutto ciò che gli aveva insegnato, e quando ebbe finito era notte inoltrata. Delphi dormiva sulla spalla di Measure; a un certo punto di quella lunga storia si era riscossa, ma non era riuscita a restare sveglia per molto tempo, il che tutto sommato era un bene, con i suoi tre figli e Arthur Stuart che sicuramente avrebbero reclamato la colazione all’ora abituale anche se lei non avesse chiuso occhio per tutta la notte. Measure invece era ancora sveglio, e gli occhi gli scintillavano per essere stato messo a parte della storia di Pettirosso, del vomere d’oro animato di vita propria, di Alvin tra le fiamme della forgia, di Arthur Stuart nelle acque dell’Hio. Dietro quella luce, nello sguardo di Measure c’era tuttavia anche una profonda tristezza per l’uomo che Alvin aveva ucciso con le sue mani, sia pure con tutte le ragioni di questa terra, e per la morte della vecchia Peg Guester, e addirittura per la morte di una certa schiavetta fuggiasca, evento dal quale, almeno per Arthur Stuart, era trascorsa una vita intera.

«In qualche modo devo cercare altre persone cui insegnare l’arte della Creazione» concluse Alvin. «Ma non so nemmeno se una persona priva di un dono come il mio sia in grado d’imparare, o quanto sia opportuno che sappia, o addirittura se sia disposta a farlo.»

«Io penso» disse Measure «che una persona debba imparare ad amare il sogno della Città di Cristallo prima ancora di sapere che potrebbe aiutarti a costruirla. Se si spargesse la voce che da queste parti vive un Creatore capace d’insegnare l’arte della Creazione, ti troveresti alle prese con il genere di persone che vorrebbero servirsi di un potere del genere per dominare gli altri. Ma la Città di Cristallo… Ah, Alvin, pensa! Come vivere per sempre all’interno di quella tromba d’aria da cui tu e il Profeta siete stati rapiti tanti anni fa.»

«Sei disposto a provarci, Measure?» chiese Alvin.

«Farò tutto il possibile per imparare» rispose Measure. «Ma prima di tutto voglio farti una promessa solenne: che tutto quello che m’insegnerai lo userò solo per costruire la Città di Cristallo. E se poi venisse fuori che non sono all’altezza di diventare un Creatore, ti aiuterò ugualmente per quello che mi sarà possibile. Tutto quello che mi chiederai di fare, Alvin, io lo farò. Porterò la mia famiglia in capo al mondo, rinuncerò a tutto ciò che possiedo, mi farò uccidere se sarà necessario… Tutto, pur di veder realizzata la visione che Tenska-Tawa ti ha mostrato quel giorno.»

Alvin gli strinse forte entrambe le mani, e così le tenne per molto, molto tempo. Poi Measure si chinò in avanti e lo baciò, da fratello a fratello, da amico ad amico. Quel movimento destò Delphi. Non aveva udito quasi niente, ma capì che era accaduto qualcosa di solenne, e sorrise con aria assonnata prima di alzarsi, lasciando che Measure la conducesse a letto per le poche ore che mancavano allo spuntar del sole.

Questo fu l’inizio della vera opera di Alvin. Per il resto dell’estate, Measure fu per lui allievo e maestro. Come Alvin insegnava a Measure l’arte della Creazione, così Measure gl’insegnava a essere padre, marito, uomo. La differenza stava nel fatto che Alvin non si rendeva affatto conto di ciò che stava imparando, mentre Measure per conquistare ogni nuova conoscenza, ogni minuscolo frammento di quei nuovi poteri, doveva compiere sforzi terribili. Ma ogni volta riusciva a capire, un piccolissimo passo alla volta, e pian piano s’impadroniva anche dei segreti della Creazione; e dopo molti tentativi falliti, anche Alvin cominciava a capire come procedere per insegnare a un altro a vedere senza usare gli occhi, a toccare senza usare le mani.

E ora, quando restava sveglio la notte, non tornava più tanto spesso al passato, ma piuttosto cercava d’immaginare il futuro. Da qualche parte, là fuori, c’era il luogo in cui avrebbe potuto costruire la Città di Cristallo; e là fuori c’erano anche coloro ai quali avrebbe potuto insegnare ad amare quel sogno, e poi a tradurlo in realtà. Da qualche parte c’era il suolo perfetto che il suo vomere avrebbe potuto solcare. Da qualche parte c’era la donna che avrebbe potuto amare e con la quale avrebbe potuto vivere sino alla fine dei suoi giorni.

Quell’autunno, nella cittadina di Hatrack, si tennero le elezioni municipali, e il caso volle che in virtù di certe strane voci a proposito di chi fosse un eroe e chi un serpente, Pauley Wiseman perse il posto, e Po Doggly si ritrovò a cambiar mestiere. Più o meno nello stesso periodo, Makepeace Smith si presentò all’ufficio del nuovo sceriffo per sporgere denuncia verso il suo ex apprendista, che, a suo dire, la primavera precedente se l’era svignata con un certo oggetto di proprietà del suo padrone.

«Mi pare un po’ tardi per sporgere denuncia» osservò lo sceriffo Doggly.

«Mi aveva minacciato» spiegò Makepeace Smith. «Avevo paura per la mia famiglia.»

«Bene, allora dimmi che cosa ti ha rubato.»

«Un vomere» disse Makepeace Smith.

«Un vomere? Dunque dovrei andare in cerca di un comunissimo vomere? E perché diavolo avrebbe rubato una cosa del genere?»

Makepeace abbassò la voce e, con aria circospetta, sussurrò: «Quel vomere era tutto d’oro».

Ah, Po Doggly nell’udirlo quasi si ammazzò dalle risate.

«È vero, te lo assicuro» insisté Makepeace.

«Sul serio? D’accordo, amico mio, forse posso crederci. Ma se nella tua fucina c’era un vomere d’oro, scommetto dieci contro uno che apparteneva ad Alvin, e non a te.»

«Ciò che l’apprendista fabbrica, appartiene al suo padrone!»

Be’, a quel punto Po assunse un’aria severa. «Prova a raccontare una storia come questa in giro per Hatrack, Makepeace Smith, e ti assicuro che molti ripenseranno subito a quando costringevi quel ragazzo a lavorare nella tua fucina mentre ormai da molto tempo era diventato più in gamba di te. Ben presto si spargerà la voce che non ti sei comportato secondo giustizia e, se cominci ad accusare Alvin Smith di averti rubato un oggetto che solo lui può aver fabbricato, penso che tutti si faranno le più matte risate alle tue spalle.»