Peggy prese la scatola col cappuccio di Alvin, la cacciò in una borsa di stoffa insieme al suo vestito di ricambio, a un grembiule e agli ultimi libri che le erano stati portati da Whitley Physicker. Il fatto di non voler incontrare a faccia a faccia quel ragazzo non significava certo che lei lo potesse dimenticare. Quella sera, o forse il mattino dopo, avrebbe nuovamente toccato il cappuccio, e poi sarebbe rimasta accanto a lui nel ricordo, usando i sensi di lui per cercare la tomba di quella ragazzina nera senza nome.
Preparata la borsa, scese al piano di sotto.
Mamma aveva portato la culla in cucina e ora impastava il pane e cantava, facendo dondolare la culla con un piede, anche se Arthur Stuart era profondamente addormentato. Peggy posò la borsa fuori della porta di cucina, poi entrò e toccò la spalla di sua madre. Per un istante sperò che la donna, nell’apprendere che Peggy se n’era andata, venisse colta dalla disperazione. Ma non sarebbe stato così. Certo, all’inizio se la sarebbe presa moltissimo e ne avrebbe dette di tutti i colori, ma con l’andar del tempo Peggy non le sarebbe mancata poi tanto. Il bambino avrebbe distolto i suoi pensieri dalla figlia. E poi mamma sapeva che Peggy era perfettamente in grado di badare a se stessa e che non era davvero il tipo da aggrapparsi alle gonne di qualcuno. Arthur Stuart invece aveva bisogno di lei.
Se quella fosse stata la prima volta che Peggy si rendeva conto di ciò che sua madre provava per lei, ne sarebbe rimasta profondamente ferita. Ma c’era ormai abituata, riusciva a capirne il motivo, voleva bene a sua madre perché era una delle donne più generose che conosceva, e dunque la perdonava se non riusciva ad amare sua figlia più di tanto.
«Mamma, ti voglio bene» disse Peggy.
«Anch’io ti voglio bene, cara» rispose mamma. Non alzò nemmeno lo sguardo, né poteva immaginare ciò che Peggy aveva in mente.
Papà dormiva ancora. In fin dei conti durante la notte aveva scavato una tomba e l’aveva anche riempita.
Peggy scrisse un biglietto. A volte si preoccupava di metterci tutti quei segni in più che si trovavano nei libri, ma stavolta voleva essere sicura che papà fosse in grado di leggerlo senza aiuto. Questo significava non metterci più roba dello stretto necessario a rendere l’idea quando lui l’avrebbe letto a voce alta.
Vi voglio bene papà e mamma ma devo andare so che è sbagliato lasciare Hatrack senza fiaccola ma sono sedici anni che lo faccio. Ho visto il mio futuro e non mi succederà niente di male non dovete preoccupami per me.
Uscì dalla porta anteriore, portò la borsa fino alla strada e non dovette attendere più di dieci minuti prima che il dottor Whitley Physicker arrivasse sul suo calesse, all’inizio della prima tappa di un viaggio che doveva condurlo a Filadelfia.
«Non credo che tu sia venuta ad aspettarmi in strada solo per restituirmi il Milton che ti ho prestato» disse Whitley Physicker.
Lei sorrise scuotendo la testa. «Nossignore. È per pregarvi di portarmi con voi a Dekane. Vorrei andare a trovare un amico di mio padre e, se la mia compagnia non vi pesa, preferirei risparmiare i soldi della diligenza.»
Peggy lo guardò riflettere, sapendo benissimo che Whitley Physicker avrebbe esaudito la sua richiesta senza neppure mettere in mezzo i suoi genitori. Era il tipo d’uomo secondo il quale una ragazza valeva esattamente quanto un ragazzo, e oltre a ciò provava per Peggy una particolare simpatia, la considerava una specie di nipote. E siccome sapeva che Peggy non mentiva mai, non aveva nemmeno bisogno d’interpellare i suoi genitori.
E lei non gli aveva mentito, non più di quanto facesse abitualmente quando se ne andava senza dire tutto ciò che sapeva. A Dekane viveva l’antica amante di suo padre, la donna che egli sognava e per la quale soffriva. Aveva perso il marito da qualche anno, ma il periodo del lutto era ormai finito, per cui non sarebbe stata costretta a declinare qualsiasi offerta di compagnia. Peggy la conosceva bene, dopo averla osservata da lontano per tutti quegli anni. Se busso alla sua porta, pensò Peggy, non avrò nemmeno bisogno di dirle che sono figlia di Horace Guester, perché mi accoglierà ugualmente anche come estranea, si prenderà cura di me e mi aiuterà a trovare la mia strada. O forse le dirò chi è mio padre, e come ho fatto a capire che dovevo andare da lei, e che mio padre vive ancora col dolente ricordo del suo amore per lei.
Il calesse passò rumorosamente sul ponte coperto che il padre e i fratelli maggiori di Alvin avevano costruito undici anni prima, dopo che il fiume si era preso il loro figlio più grande. Fra le travi nidificavano gli uccelli. Il loro era un canto pazzo, musicale, felice, almeno per le orecchie di Peggy. Sotto il tetto del ponte cinguettavano così forte da farle pensare che l’opera lirica doveva essere qualcosa di molto simile. A Camelot c’era un teatro dell’opera. Forse un giorno ci sarebbe andata e l’avrebbe ascoltata, e, chissà, avrebbe visto il re in persona nel suo palco.
O forse no. Perché magari un giorno avrebbe trovato il sentiero che conduceva a un sogno breve ma meraviglioso, e allora avrebbe avuto cose più importanti da fare che guardare un re o ascoltare la musica della corte austriaca suonata da orchestrali della Virginia vestiti di pizzi nel sontuoso teatro dell’opera di Camelot. Alvin era più importante di tutto questo, se solo fosse riuscito a conoscere tutti i suoi poteri e a capire in che modo utilizzarli. E lei era nata per essere parte di tutto questo. Ecco con quanta facilità cominciava a sognare di lui. E perché no? Quando lo faceva, per quanto brevemente e con difficoltà, quei sogni erano vere visioni del futuro: la più grande gioia e insieme il più grande dolore che ella potesse provare riguardavano quel ragazzo che ancora non era neppure un uomo, che non l’aveva ancora vista in viso.
Seduta sul calesse accanto al dottor Whitley Physicker, Peggy scacciò a forza quei pensieri, quelle visioni, dalla propria mente. Sarà come Dio vorrà, pensò. Se troverò quel sentiero, lo troverò, e se non lo troverò, pazienza. Per ora, se non altro, sono libera. Libera dalla mia solitaria sorveglianza della cittadina di Hatrack, e libera dalla necessità di costruire tutti i miei progetti intorno a quel ragazzo. E se mi liberassi di lui per sempre? Se mi trovassi un futuro senza di lui? Anzi, la cosa più probabile è che finisca proprio così. Col tempo, dimenticherò perfino quel barlume di sogno, e troverò la mia strada verso una fine tranquilla, invece di adattarmi a forza al suo tortuoso sentiero.
I cavalli sembravano danzare davanti a lei, trainando il calesse così in fretta che il vento le scompigliava i capelli. Peggy chiuse gli occhi e immaginò di volare: una fuggiasca che doveva apprendere tutto della libertà.
Che trovi la sua via alla grandezza senza di me. Che io possa vivere una vita felice lontana da lui. Sia qualche altra donna a stare al suo fianco nell’ora del trionfo. Sia qualche altra donna a inginocchiarsi in lacrime sulla sua tomba.
III
MENZOGNE
All’età di undici anni, giunto a Hatrack, Alvin perse metà del suo nome. Nella sua cittadina natale di Vigor Church, non lontano dal punto in cui il Tippy-Canoe gettava le sue acque nel Wobbish, tutti sapevano che suo padre era Alvin, mugnaio della cittadina e della regione circostante. Alvin Miller, appunto. E questo aveva fatto sì che il suo settimo figlio, che portava il suo stesso nome, venisse chiamato da tutti Alvin Junior. Ora, tuttavia, sarebbe vissuto in un luogo in cui non c’erano più di sei persone che potessero dire di conoscere suo padre. Quindi niente più nomi come Miller e Junior. Lì era solo Alvin, Alvin e basta, ma udire quel nome da solo gli dava l’impressione di essere stato dimezzato.