Come in quel momento. In quel preciso istante, mentre guardava dalla finestra, la vide. Una fiamma vitale che ardeva in lontananza.
D’un balzo si avvicinò. Non con il corpo, si capisce; la sua carne rimase nella soffitta. Ma, essendo una fiaccola, sapeva come guardare da vicino una fiamma vitale lontana.
Era una giovane donna. No, una ragazza, ancor più giovane di lei. E strana dentro, cosicché Peggy capì immediatamente che quella bambina all’inizio aveva parlato una lingua che non era l’inglese, anche se adesso parlava e pensava in inglese. Questo rendeva i suoi pensieri bizzarri e contorti. Eppure certe cose penetrano più a fondo delle tracce lasciate dalle parole nel cervello; la piccola Peggy non ebbe bisogno di aiuto per vedere che la ragazza stringeva tra le braccia un bambino, né per comprendere, dal modo in cui se ne stava sulla sponda del fiume, che la ragazza era sicura di dover morire, né per scorgere quali orrori l’avrebbero attesa alla piantagione, né che cosa aveva fatto per fuggire.
Guarda lassù il sole, tre dita sopra gli alberi. Ecco la piccola schiava nera fuggiasca e il suo bastardino mezzo Nero e mezzo Bianco, eccoli in piedi sulla sponda dell’Hio, seminascosti tra gli alberi e i cespugli, a guardare i Bianchi che guidano le chiatte sul filo della corrente con le loro lunghe pertiche. La ragazza ha paura, sa che i cani non possono trovarla, ma ben presto ricorreranno al Cacciatore di schiavi fuggiaschi, molto più pericoloso dei cani, e come farà lei ad attraversare il fiume con il bambino?
Per un istante la piccola fuggiasca pensa una cosa terribile: lascio qui il bambino, lo nascondo in questo tronco marcio, rubo la barca e poi torno qui. In questo modo possiamo cavarcela, sicuro.
Ma poi la ragazzina nera cui nessuno ha mai insegnato a fare la mamma capisce che una brava mamma non può abbandonare un bambino che ancora deve poppare tante volte al giorno quante sono le dita di due mani. E mormora tra sé: una brava mamma non lascia il suo bambino dove la volpe, la faina o il procione possono mangiarselo un pezzetto alla volta e farlo morire. No davvero, questo no.
Così si siede, stringendo il bambino, e guarda scorrere il fiume: avrebbe anche potuto essere il mare, visto che non sarebbe mai arrivata dall’altra parte.
Forse qualche Bianco può aiutarla? Lì nel territorio degli Appalachi, quelli che aiutano gli schiavi a fuggire, i Bianchi l’impiccano. Ma la schiavetta fuggiasca, quand’era alla piantagione, ha sentito raccontare molte storie a proposito di alcuni Bianchi che dicono che nessuno dovrebbe appartenere a un’altra persona, che la ragazza nera dovrebbe avere gli stessi diritti della signora bianca, la quale dice di no a tutti gli uomini che non sono il suo vero marito. Quei Bianchi affermano che una ragazza nera ha il diritto di tenere il suo bambino, e non è giusto che Padrone Bianco voglia venderlo il giorno stesso in cui sarà svezzato, e farlo diventare così uno schiavo domestico nel Drydenshire, pronto a baciare i piedi dei Bianchi al loro minimo cenno.
«Ah, il tuo bambino è così fortunato», dicono tutti alla piccola schiava nera. «Crescerà nella bella casa di qualche signore nelle Colonie della Corona, dove hanno ancora il re… Pensa, un giorno potrebbe addirittura vederlo!»
Lei non dice nulla, ma dentro di sé ride. A lei l’idea di vedere un re non fa né caldo né freddo. Anche suo padre in Africa era un re, e loro l’hanno ammazzato a fucilate. Quei mercanti di schiavi portoghesi le hanno fatto vedere che cosa vuol dire essere un re; vuol dire morire in fretta come chiunque altro, e versare sangue rosso come chiunque altro, e gridare di dolore e di paura… Ah, proprio una bella cosa essere un re, proprio una bella cosa vedere un re. Possibile che i Bianchi credano a questa bugia?
Io non ci credo. Dico di crederci, ma non è vero. Non lascerò mai che mi portino via il mio bambino. Suo nonno era un re, e io glielo racconterò tutti i giorni finché non diventerà grande. E quando sarà un re, grande e forte, nessuno potrà picchiarlo con un bastone o lui gliele restituirà, e nessuno potrà prenderla, questa donna, allargarle le gambe come a un maiale e cacciarle dentro questo bambino mezzo Bianco senza che lui possa fare niente, solo starsene lì a piangere nella sua capanna. Nossignora, nossignore.
Così lei decide di fare una cosa brutta, malvagia, cattiva, proibita. Ruba due candele e le ammorbidisce accanto al fuoco. Le lavora come pasta da pane, dopo che il bambino ha poppato ci mette il latte delle sue mammelle, e poi ci lavora dentro anche un po’ di saliva, quindi stira quella pasta e la modella con le dita e la fa rotolare nella cenere finché non vede una bambola fatta come una piccola schiava nera. Proprio uguale a lei.
Allora nasconde la bambola a forma di schiavetta nera e va da Volpe Grassa e lo prega di darle le penne di quel grosso corvo che ha appena catturato.
«La schiavetta nera non ha bisogno di penne» dice Volpe Grassa.
«Voglio fare un feticcio per il mio bambino» gli spiega.
Volpe Grassa ride, sa che è una bugia. «Non esistono feticci con le penne nere. Non ho mai sentito parlare di una cosa del genere.»
Ma la schiavetta nera ribatte: «Il mio papà era re di Umbawana. Io conosco molti segreti».
Volpe Grassa scuote la testa, ride, ride. «E che ne sai, tu? Non sai neanche parlare inglese. Ti darò tutte le penne di corvo che vuoi, ma non appena quel bambino smette di poppare tu vieni da me, e io te ne farò avere un altro, stavolta tutto nero.»
Lei odia Volpe Grassa quasi come Padrone Bianco, ma Volpe Grassa ha le penne di corvo, e lei dice: «Sissignore».
Riempie due mani di penne. Ride dentro di sé. Piuttosto che lasciarsi mettere incinta da Volpe Grassa si farebbe ammazzare.
Copre la bambola di piume finché non è diventata un uccello a forma di ragazza. È molto potente, questa cosa che ha dentro il suo latte e la sua saliva, coperta di penne di corvo. È molto potente, così potente che alla fine la uccide, ma il mio bambino, il mio bambino non bacerà mai i piedi di Padrone Bianco. Nessun Padrone Bianco alzerà mai la frusta su di lui.
La notte è buia, la luna ancora non è spuntata. Lei esce di soppiatto dalla capanna. Il bambino è attaccato alla poppa, così non fa rumore. Lei si lega il bambino al seno in modo che non cada. Butta la bambola sul fuoco. La bambola brucia, brucia, brucia, e ne scaturisce tutto il potere delle penne. Lei sente il fuoco riversarsi in lei. Schiude le ali — oh, quanto sono grandi — le allarga, comincia a batterle come ha visto fare a quel vecchio corvo. Si solleva in aria, su nel buio della notte, si solleva e vola, vola a Nord, il più lontano possibile, e quando spunta la luna lei la tiene alla propria destra in modo che questo bambino possa atterrare dove i Bianchi dicono che la ragazza nera non è più schiava, che il bambino mezzo Bianco non sarà mai schiavo.
Giunge il mattino e si alza il sole e lei non vola più. Ah, è come morire, come morire pensa, trascinando i piedi per terra. Ora sa che quell’uccello con l’ala spezzata ha pregato perché Volpe Grassa lo trovasse. Dopo aver volato camminare è così triste, ti fa tanto male, è come essere alla catena, sentire la polvere sotto i piedi.
Però lei cammina col suo bambino tutta la mattina e adesso è arrivata a questo grande fiume. Devo arrivare fin qui, dice la schiavetta fuggiasca, volo fin qui, attraverso il fiume. Ma poi spunta il sole e io scendo a terra prima del fiume. Ora non potrò mai attraversarlo, il Cacciatore di schiavi mi troverà, mi frusterà lasciandomi mezza morta, si porterà via il mio bambino, lo venderà al Sud.
Ma io no. Io li giocherò. Morirò prima.
No, morirò seconda.
Alcuni avrebbero potuto discutere amabilmente se la schiavitù fosse un peccato mortale o solo una curiosa usanza. Altri avrebbero potuto obiettare che, quantunque la schiavitù fosse una pessima cosa, gli Emancipazionisti erano troppo pazzi perché uno potesse condividere le loro idee. Altri ancora avrebbero potuto guardare pietosamente i Neri e rammaricarsi per la loro condizione, ma al tempo stesso sentirsi sollevati all’idea che si trovassero soprattutto in Africa o nelle Colonie della Corona o in Canada o in qualche altro luogo comunque lontano di lì. Peggy non poteva permettersi il lusso di avere opinioni sull’argomento. Tutto ciò che sapeva era che nessuna fiamma vitale soffriva tanto quanto l’anima di un Nero che viveva all’ombra nera e sottile della frusta.