«La prossima volta che vedrò il Messo, se avrò questa fortuna, sono sicuro che ne sarà compiaciuto.»
«Amen» aveva concluso Cavil.
Poi, dopo aver dato una pacca al cavallo di Thrower, lo guardò scomparire in lontananza. La mia Agar. Sì, ritroverà la mia Agar e il suo bambino. Sono trascorsi quasi sette anni da quando quella donna ha rapito il mio primogenito. Ora tornerà, e stavolta resterà in catene e mi darà altri figli finché non sarà più in grado di partorirne. In quanto al ragazzo, sarà il mio Ismaele. Ecco come lo chiamerò: Ismaele. Lo terrò qui alla fattoria e lo tirerò su in modo che diventi forte, obbediente, un vero cristiano. Quando sarà abbastanza grande lo affitterò a giornata agli altri piantatori, e durante la notte proseguirà la mia opera, spargendo il seme eletto in tutti gli Appalachi. Allora la mia prole sarà numerosa come la sabbia del mare, proprio come quella di Abramo.
E chi lo sa? Forse allora potrà accadere il miracolo, e la mia amata moglie guarirà, e potrà concepire e dare alla luce un figlio di pura razza bianca, il mio Isacco, che possa ereditare tutte le mie sostanze e proseguire la mia opera. O Sorvegliante, mio Signore, abbi pietà di me.
XVII
LA GARA DI ORTOGRAFIA
Si era all’inizio di gennaio, la neve era alta e tirava un vento così gelido da portarti via il naso… Quindi Makepeace Smith sostenne che toccava a lui lavorare alla forgia tutto il giorno, mentre Alvin andava in città a far spese e a consegnare i lavori finiti. D’estate in genere accadeva il contrario.
Non importa, pensò Alvin. È lui il padrone qui. Ma se un giorno diventerò padrone di una fucina e avrò un apprendista, potete scommetterci che lo tratterò meglio di quanto lui non stia trattando me. Padrone e apprendista dovrebbero dividersi equamente il lavoro, tranne quando l’apprendista chiaramente non sa che pesci prendere, e il padrone deve mostrargli come fere. Ecco il patto: non avere a propria disposizione uno schiavo, non costringere l’apprendista a scendere in città col carro in mezzo alla bufera.
Per dire la verità, Alvin sapeva che non sarebbe stato necessario prendere il carro e che il tiro a due con slitta di Horace Guester sarebbe andato benissimo. Sapeva inoltre che Horace non aveva nessuna difficoltà a prestarglielo, purché una volta in città il giovane sbrigasse anche qualche commissione per suo conto.
Alvin si strinse nella giubba avanzando a testa bassa nel vento. Gli veniva proprio in viso, da ovest, e così sarebbe stato per tutto il tragitto fino alla locanda. Imboccò il sentiero che passava accanto alla casa della signorina Larner, fiancheggiato dagli alberi che smorzavano la forza del vento. Naturalmente la signorina Larner non era in casa. A quell’ora, si trovava a scuola con i suoi alunni, in città. Ma la scuola di Alvin era proprio il vecchio deposito sulla sorgente, e passare davanti alla porta lo indusse a ripensare ai suoi studi.
La signorina Larner gli aveva fatto imparare cose che Alvin non si sarebbe mai immaginato. Si era aspettato che lei continuasse a farlo leggere, scrivere e far di conto, e in un certo senso era andata proprio così. Ma non gli faceva leggere gli stessi sillabari dei bambini… come quello di Arthur Stuart, che ogni sera sgobbava sulle pagine a lume di candela. No, lei parlava ad Alvin di cose delle quali egli non avrebbe mai sospettato l’esistenza, e anche gli esercizi di scrittura o di calcolo vertevano su quel genere di cose.
Ieri.
«La particella più piccola si chiama atomo» aveva detto. «Secondo la teoria di Democrito, ogni oggetto si può dividere in particelle sempre più piccole, finché non si arriva all’atomo che non si può più dividere ed è la più piccola di tutte.»
«E com’è fatto?»
«Non lo so. È troppo piccolo per poterlo vedere. Tu lo sai?»
«Penso di no. Non ho mai visto niente di così piccolo da non poterlo più dividere.»
«Ma sapresti immaginare qualcosa di ancora più piccolo?»
«Sì, ma anche quello potrei dividerlo in due.»
La signorina Larner aveva sospirato. «Bene, Alvin, allora rifletti bene. Se esistesse qualcosa di così piccolo da non poter essere ulteriormente diviso, come sarebbe?»
«Davvero piccolissimo, penso.»
Ma stava solo scherzando. Era un problema, e Alvin provò ad affrontarlo nello stesso modo in cui affrontava qualsiasi altro problema pratico. Inviò la sua pulce nelle assi del pavimento. Essendo di legno, il pavimento era un ammasso di cose tutte diverse, provenienti dal cuore di alberi una volta vivi e ora fatti a pezzi. Perciò Alvin inviò subito la sua pulce nel ferro della stufa, che all’interno era fatta più o meno della stessa cosa. Poiché la stufa era calda, i pezzetti più piccoli di cui era composta e che egli riusciva a distinguere erano tutti in movimento, tanto da mutarsi in una macchia confusa; il fuoco che si trovava all’interno, invece, scagliava contro le pareti vampate di luce e di calore, ciascun elemento dei quali era così piccolo e sottile che Alvin riusciva a stento a trattenerne l’idea nella propria mente. Le particelle di fuoco in realtà non riusciva nemmeno a vederle. Capiva soltanto che erano passate.
«La luce» disse. «E il calore. Non possono essere divisi.»
«È vero. Il fuoco non è come la terra: non può essere diviso. Ma lo possiamo trasformare, non è vero? Possiamo spegnerlo. Allora smette di essere quello che era. Perciò le parti che lo compongono devono trasformarsi in qualcos’altro, e di conseguenza non erano atomi immutabili e indivisibili.»
«Be’, siccome non esiste niente di più piccolo delle particelle che compongono il fuoco, secondo me non esistono neanche gli atomi.»
«Alvin, devi smetterla di trattare le cose in modo così empirico.»
«Se saprei che cosa vuol dire, forse smetterei.»
«Se sapessi.»
«Come volete.»
«Non puoi rispondere a ogni domanda che ti faccio standotene lì a occhi spalancati e mandando la tua pulce a esplorare i sassi là fuori o roba del genere.»
Alvin sospirò. «A volte preferirei non avervelo detto.»
«Vuoi che t’insegni che cosa significa essere un Creatore oppure no?»
«Certo che lo voglio! Voi invece parlate di atomi e gravità! Non m’importa niente di quello che hanno detto Newton e tutti quei parrucconi! Io voglio sapere come si può fare a creare la… quel posto.» Alvin ricordò appena in tempo che nell’angolo c’era Arthur Stuart, che mandava a memoria ogni loro parola, completa di tono di voce. Non era proprio il caso di riempirgli la testa d’idee stravaganti quali la Città di Cristallo.
«Non capisci, Alvin? È trascorso tanto tempo — migliaia di anni — e ormai nessuno sa più che cosa sia veramente un Creatore, né che cosa faccia. Sappiamo solo che una volta sono esistiti uomini così, e che quegli uomini sapevano fare certe cose. Trasformare il piombo o il ferro in oro, per esempio, oppure l’acqua in vino e così via.»
«Direi che trasformare il ferro in oro è la cosa più facile» rifletté Alvin. «I metalli, dentro, sono più o meno fatti della stessa roba. Ma il vino… Là dentro c’è un tale guazzabuglio di cose che uno dovrebbe essere un… un…» Non riusciva a trovare la parola per indicare il massimo a cui un essere umano potesse aspirare.
«Un Creatore.»
Sì, la parola era quella. «Direi di sì.»
«E io, Alvin, ti sto dicendo che se vuoi imparare a fare ciò che facevano gli antichi Creatori, devi capire la natura delle cose. Non si può trasformare ciò che non si capisce.»
«E io capisco solo quello che vedo.»
«Sbagliato! Assolutamente falso, Alvin Smith! È ciò che puoi vedere che ti resta impossibile da capire. Il mondo che vedi intorno a te non è altro che un esempio, un caso particolare. Ma i principi sottostanti, l’ordine che tiene insieme tutto questo, resterà sempre invisibile. Lo si può scoprire solo con l’immaginazione, e questo è precisamente l’aspetto della tua mente che è stato maggiormente trascurato.»