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«Meglio schiavo negli Appalachi!» gridò Arthur Stuart.

Goody Guester cessò sull’istante tanto di scherzare quanto di essere arrabbiata, e assunse un tono solenne. «Non dire queste cose neanche per scherzo, Arthur Stuart. Un giorno qualcuno è morto solo per evitarti quel destino.»

«Lo so» disse Arthur.

«No, che non lo sai, ma sarà meglio che tu ci pensi due volte prima di…»

«Era la mia mamma» mormorò Arthur.

La vecchia Peg sembrò impaurita. Gettò un’occhiata ad Alvin e disse: «Lasciamo stare».

«La mia mamma è diventata un corvo» proseguì Arthur. «È volata in alto nel cielo, ma poi la terra se l’è presa e lei è rimasta impigliata ed è morta.»

Alvin notò che Goody Guester gli aveva lanciato un’altra occhiata, ancora più nervosa. Allora nella storia di Arthur a proposito di volare forse c’era qualcosa di vero. E se la ragazza sepolta accanto a Vigor… Magari in qualche modo era riuscita ad affidare il suo bambino a un corvo. O forse era stata solo una visione. Comunque fosse, Goody Guester aveva deciso di far finta di niente… Era troppo tardi per ingannare Alvin, si capisce, ma lei non poteva saperlo. «Be’, Arthur, è proprio una bella storia» commentò la vecchia Peg.

«Ma è vera» disse Arthur. «Mi ricordo tutto.»

Goody Guester parve ancora più turbata. Alvin però sapeva bene che non era davvero stato il caso di mettersi a discutere con Arthur riguardo a quella sua idea del corvo e del fatto che una volta aveva volato. L’unico modo per farlo smettere era distrarlo con qualcosa di più interessante. «È meglio che tu venga con me, Arthur Stuart» disse allora. «Può anche darsi che nel tuo passato ci sia una mamma trasformata in corvo, ma ho l’impressione che la tua mamma di adesso, quella che si trova in questa cucina, stia per impastarti come una pastafrolla.»

«Non dimenticarti quello che mi devi comprare» lo ammonì la vecchia Peg.

«Non preoccupatevi. Ho la lista» disse Alvin.

«Ma se non ti ho visto scrivere nulla!»

«La mia lista è Arthur Stuart. Faglielo sentire, Arthur.»

Arthur avvicinò la bocca all’orecchio di Alvin e urlò così forte che il giovane si sentì tremare fino alle caviglie: «Un barilotto di farina di grano e due coni di zucchero e una libbra di pepe e dodici fogli di carta e un paio di braccia di stoffa che possa andar bene per una camicia per Arthur Stuart».

Anche se urlava, quella era chiaramente la voce di sua madre.

La vecchia Peg non sopportava quelle imitazioni, perciò gli si avvicinò con il forchettone in una mano e una pesante mannaia nell’altra. «Tienilo fermo, così che gli possa piantare il forchettone in bocca e tagliar via le orecchie!»

«Salvami, Alvin!» gridò Arthur Stuart.

Alvin lo salvò scappando verso la porta posteriore. Allora la vecchia Peg depose i suoi strumenti per la macellazione dei bambini, e aiutò Alvin a infagottare Arthur Stuart con giacconi, pantaloni imbottiti, stivali e sciarpe finché non fu più largo che alto. Poi Alvin aprì la porta, lo buttò di peso nella neve e lo fece rotolare col piede finché non ne fu completamente ricoperto.

La vecchia Peg si affacciò alla porta della cucina. «Molto bene, Alvin Junior!» latrò. «Fallo morire di freddo davanti agli occhi di sua madre, testa vuota che non sei altro!»

Alvin e Arthur Stuart risposero con una risata. La vecchia Peg ingiunse loro di stare attenti e di tornare a casa prima che facesse buio, quindi sbatté la porta chiudendola dall’interno con il paletto.

Alvin e Arthur attaccarono i cavalli alla slitta, poi spazzarono la neve che l’aveva ricoperta nel frattempo, infine vi montarono sopra e sedettero, coprendosi le ginocchia con la coperta. Anzitutto salirono alla fucina a prendere la roba che Alvin doveva consegnare, più che altro cardini, catenacci e attrezzi per i falegnami e i sellai della città, per i quali l’inverno era la stagione dell’anno in cui avevano più lavoro. Poi si diressero verso la città.

Non avevano percorso molta strada quando raggiunsero un uomo che avanzava faticosamente nella neve: non era neanche troppo ben vestito, considerando la stagione. Quando furono alla sua altezza e poterono vederlo in viso, Alvin non fu sorpreso nel riconoscere Mock Berry.

«Salta sulla slitta, Mock Berry, così che io non debba averti sulla coscienza» lo invitò il giovane.

Sebbene fosse stato appena sorpassato dai cavalli che sbuffavano e scalpitavano nella neve, Mock guardò Alvin come se solo udendo quelle parole si fosse accorto della sua presenza. «Grazie, Alvin» rispose. Alvin si spostò sul sedile per fargli posto. Mock salì accanto a lui: si muoveva in maniera alquanto goffa, perché aveva le mani intorpidite dal freddo. Solo nell’atto di sedersi parve accorgersi di Arthur Stuart seduto dall’altra parte. Reagì nello stesso modo che se qualcuno gli avesse tirato un ceffone… Si rialzò e fece per scendere dalla slitta.

«Ehi, aspetta!» esclamò Alvin. «Non sarai stupido come i Bianchi di città, che si rifiutano di sedersi accanto a un piccolo mulatto! Vergogna!»

Mock guardò fisso Alvin per qualche secondo prima di decidersi a rispondere. «Ascoltami bene, Alvin Smith, mi conosci abbastanza bene da sapere che non è vero. So benissimo da dove saltano fuori i mulatti come lui, e non me la prendo certo con loro per quel che un Bianco può aver fatto insieme alle loro mamme. Ma in città girano voci riguardo alla vera mamma di questo bambino, e non è bene che io mi faccia vedere in giro insieme a lui.»

Alvin conosceva bene quella storia: Arthur Stuart sarebbe stato figlio di Anga, moglie di Mock e, siccome suo padre era evidentemente un Bianco, Mock si sarebbe rifiutato categoricamente di tenere il bambino; era per questo motivo che Goody Guester se l’era preso in casa. Alvin sapeva anche che una simile storia non era vera, ma in una città come quella era meglio lasciar girare una storia del genere piuttosto che far sospettare la verità. Alvin non si sarebbe sorpreso se qualche bravo cittadino di Hatrack avesse denunciato Arthur come schiavo, facendolo poi rispedire al Sud, in modo da non avere più grattacapi riguardo alla scuola e via dicendo.

«Non preoccuparti» disse Alvin. «In una giornata come questa non ti vedrà nessuno, e se anche ciò accadesse, Arthur somiglia più a un fagotto di stracci che a un bambino. E tu puoi saltar giù non appena arriviamo in città.» Così dicendo Alvin si chinò di lato afferrando Mock per il braccio e costringendolo a sedersi di nuovo. «Ora tirati la coperta sulle ginocchia e stringiti a me in modo che io non debba portarti direttamente dal becchino ridotto a un pezzo di ghiaccio.»

«Ti ringrazio di cuore, saputello di un apprendista.» Mock tirò su la coperta in modo che ricoprisse completamente Arthur Stuart. Arthur strillò e la tirò giù di nuovo in modo da poter vedere la strada. Poi lanciò a Mock Berry uno sguardo tale che, se non fosse stato tremante di freddo e bagnato fino alle ossa, avrebbe potuto incenerirlo.

Quando arrivarono in città, trovarono un sacco di slitte, ma nessuna traccia dell’allegria che di solito accoglie la prima vera nevicata. La gente continuava a occuparsi delle proprie faccende, e i cavalli fumanti se ne stavano lì a sbuffare e a scalpitare sotto la sferza del vento. I più pigri — avvocati, impiegati e tipi del genere — in una giornata come quella preferivano restarsene a casa. Ma chi doveva lavorare sul serio aveva il fuoco acceso, il laboratorio in funzione, la bottega aperta per i clienti. Alvin fece il suo giro consegnando i lavori finiti alle persone che li avevano ordinati. Tutti quanti firmarono sul quaderno delle consegne di Makepeace… Ecco un’altra ingiustizia da parte sua, pensò Alvin: non permette che i clienti mi paghino in contanti. Mi tratta alla stregua di un ragazzino di nove anni e non come un giovane che di anni ne ha il doppio.