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Per il metallo, fece ricorso al mucchio del ferro di recupero, e poi lavorò di spazzola e lima per ripulirlo da ogni traccia di sporco e di ruggine. Per l’occasione raschiò anche l’interno del crogiuolo. Solo allora fu pronto alla fusione e alla gettata. Fece divampare il fuoco di carbonella azionando egli stesso il mantice, alzando e abbassando l’impugnatura come aveva fatto quand’era un apprendista alle prime armi. Alla fine nel crogiuolo il ferro era diventato bianco, e il calore del fuoco era tale che Alvin riusciva a malapena ad avvicinarsi. Tuttavia si avvicinò ugualmente, con le tenaglie in mano: sollevò il crogiuolo dal fuoco, lo portò fino allo stampo e lo inclinò. Il ferro sfrigolò in una cascata di scintille, ma lo stampo resisté egregiamente, senza deformarsi o creparsi per il calore.

Rimettere il crogiuolo sul fuoco. Far scivolare al loro posto le altre parti dello stampo. Con delicatezza, senza scosse né schizzi. Alvin aveva giudicato esattamente la quantità di ferro fuso necessaria; quando l’ultima parte della forma scivolò al suo posto, dal bordo ne trapelò solo una piccolissima parte, dalla quale si poteva capire che ne era stata versata una quantità sufficiente e che lo spreco era stato ridotto al minimo.

Aveva finito. Ora non restava che attendere che il ferro si raffreddasse, indurendosi. Il mattino dopo avrebbe visto che cosa aveva fabbricato.

E il mattino dopo Makepeace Smith avrebbe visto il vomere e l’avrebbe dichiarato uomo: un libero artigiano, autorizzato a lavorare a qualsiasi forgia, anche se non ancora pronto a prendere a sua volta degli apprendisti. Ma nel caso di Alvin… be’, quel livello egli l’aveva raggiunto già da anni. A Makepeace sarebbero mancate soltanto poche settimane perché Alvin completasse i sette anni al suo servizio. Era solo questo che aveva atteso, e non il vomere.

No, per Alvin la vera prova d’esame doveva ancora venire. Quando Makepeace avesse dichiarato che quel vomere era di suo gradimento, Alvin avrebbe fatto qualcosa di più.

«Lo trasformerò in oro» disse Alvin.

La signorina Larner inarcò un sopracciglio. «E poi? Che cosa racconterai alla gente di fronte a un vomere d’oro? Che l’hai trovato da qualche parte? Che casualmente ti ritrovavi tra le mani un po’ d’oro e hai pensato. ‘Guarda, è giusto quello che mi basta per fabbricare un vomere?’»

«Siete stata voi a dirmi che il Creatore è uno che riesce a trasformare il ferro in oro.»

«Sì, ma questo non significa che sia opportuno farlo davvero.» La signorina Larner uscì dal calore soffocante della fucina nell’aria stagnante del tardo pomeriggio. Faceva più fresco, ma non di molto: era la prima serata veramente afosa di quella primavera.

«Qualcosa di più dell’oro» disse Alvin. «O almeno non oro normale.»

«L’oro normale non ti basterebbe?»

«L’oro è morto. Come il ferro.»

«Non è morto. È semplicemente terra senza fuoco. Non è mai stato vivo, perciò non può essere morto.»

«Siete stata voi a dirmi che, se riuscivo a immaginarmi qualcosa, poi forse sarei riuscito a farlo esistere.»

«E tu sapresti immaginare un oro vivo?»

«Un vomere che solca la terra senza essere trainato dai buoi.»

La signorina Larner non disse nulla, ma gli occhi le scintillarono di gioia.

«Se riuscissi a creare una cosa del genere, signorina Larner, mi potreste considerare diplomato alla vostra scuola per Creatori?»

«Direi che non saresti più un apprendista.»

«Proprio come pensavo, signorina Larner. Libero artigiano e libero Creatore. Tutte e due le cose insieme, se ci riesco.»

«E ci riuscirai?»

Alvin annuì, poi alzò le spalle. «Penso di sì. Per via di quello che mi avete detto sugli atomi, a gennaio.»

«Credevo che tu avessi lasciato perdere.»

«Niente affatto. Me ne stavo lì e pensavo: come sarà qualcosa che non può essere diviso in pezzi ancora più piccoli? E poi ho pensato: ecco, finché di qualcosa si può dire che abbia delle dimensioni, quella cosa può essere divisa. Perciò l’atomo non è altro che un luogo, un punto, senza nessuna dimensione.»

«Il punto geometrico di Euclide.»

«Proprio così; solo che mi avevate detto che la geometria di Euclide era tutta immaginaria, mentre questa è reale.»

«Ma Alvin, se l’atomo non possiede dimensioni…»

«È quello che mi dicevo anch’io: se non ha dimensioni, allora non è niente. E invece non è vero. È un luogo. Quindi ho pensato: no, non è nemmeno un luogo… bensì ha un luogo. Non so se capite la differenza. L’atomo può trovarsi in un certo posto, in un puro punto geometrico come quello di cui parlavate, e al tempo stesso può muoversi. Un istante dopo può trovarsi da qualche altra parte. Perciò, vedete, non solo ha un luogo, ma anche un passato e un futuro. Ieri era lì, oggi è qui, domani sarà laggiù.»

«Ma una cosa del genere sarebbe fatta di nulla, Alvin.»

«Sì, di nulla. Ma questo non significa che non è qualcosa.»

«Che non sia qualcosa.»

«Sì, signorina Larner, la regola grammaticale la conosco, ma in questo momento non ci stavo pensando.»

«Non potrai dire di conoscere la grammatica finché non l’applicherai anche senza pensarci. Ma non importa.»

«Vedete, allora ho cominciato a pensare che, se l’atomo non aveva dimensioni, com’era possibile capire dove si trovava? Luce non ne emanava, perché non conteneva fuoco che potesse emanarne. Perciò sono arrivato a questa conclusione: immaginiamo per un momento che l’atomo non possieda dimensioni, bensì una qualche sorta di mente. Una specie di minuscolo frammento d’intelligenza, sufficiente a capire dove si trova. E l’unica capacità che ha è quella di spostarsi da qualche altra parte, e capire dove si trova in quel momento.»

«Com’è possibile una cosa del genere? Come può possedere una memoria qualcosa che neppure esiste?»

«Provate a pensarci! Mettiamo di avere migliaia di atomi che si muovono da tutte le parti. Com’è possibile che uno qualsiasi di loro sappia dove si trova? Poiché gli altri atomi si muovono in tutte le direzioni, niente di ciò che lo circonda in ogni dato momento resta uguale a se stesso. Ma allora immaginiamo che arrivi qualcuno — e in questo momento penso a Dio — qualcuno che sia in grado di mostrar loro un certo disegno. Un modo per star fermi. Mettiamo che dica: ‘Ehi, tu, mettiti al centro, e voialtri invece restate sempre alla stessa distanza’. Che cosa ne verrebbe fuori?»

La signorina Larner ci pensò su un istante. «Una sfera vuota. Una palla. Ma sarebbe ancora composta di niente, Alvin.»

«Ma non capite? Ecco che cosa mi ha dato la certezza della verità di ciò che avevo pensato. Voglio dire, se c’è una cosa che ho imparato, inviando la mia pulce qua e là, è che gli oggetti sono per la maggior parte fatti di vuoto. Quell’incudine sembra ben solida, no? Eppure vi assicuro che è per lo più fatta di vuoto. Sono solo tanti frammenti di ferro sospesi a una certa distanza uno dall’altro secondo un certo disegno. Ma la maggior parte dell’incudine è formata dallo spazio vuoto che sta fra l’uno e l’altro. Non capite? Quei frammenti si comportano proprio come gli atomi di cui stavamo parlando. Perciò mettiamo che l’incudine sia come una montagna, solo che, quando uno la vede da vicino, si accorge che la montagna è fatta di ciottoli. E quando prendi in mano quei ciottoli, ti si sbriciolano in mano, e vedi che sono fatti di polvere. E se si potesse prendere uno di quei granelli di polvere ci accorgeremmo che è fatto esattamente come la montagna, ossia di ciottoli ancora più piccoli.»

«Vorresti dire che quelli che vediamo come oggetti solidi non sono in realtà che illusioni? Minuscoli frammenti fatti di nulla che costituiscono minuscole sfere che a loro volta si compongono per formare i tuoi frammenti, e questi frammenti si compongono in pezzi, e questi pezzi formano l’incudine…»