«E voi che avete intenzione di fare?» chiese Alvin.
«Caricare i fucili» spiegò Horace. «E, quando se ne saranno andati, seguirli.»
Alvin gli riferì quello che aveva detto la signorina Larner a proposito della polizia federale: sarebbe sicuramente arrivata non appena qualcuno avesse messo le mani su un Cacciatore.
«Qual è la cosa peggiore che possono farmi? Impiccarmi. Ti assicuro che preferisco essere impiccato piuttosto che continuare a vivere in questa casa dopo essermi lasciato portar via Arthur Stuart senza aver fatto nulla per impedirglielo. E posso farlo, Alvin. Diavolo, ragazzo, ai miei tempi avrò salvato almeno cinquanta schiavi fuggiaschi. Po Doggly e io andavamo a prenderli da questa parte del fiume e li facevamo arrivare fino in Canada. Succedeva in continuazione.»
Alvin non rimase affatto sorpreso nello scoprire che Horace Guester era un Emancipazionista, e non solo a parole.
«Ti dico questo, Alvin, perché ho bisogno del tuo aiuto. Io sono solo, e quelli sono in due. Non c’è nessun altro di cui possa fidarmi; con Po Doggly non faccio cose del genere da anni e anni, e non so più come lui la pensi. Ma tu… So che sai mantenere un segreto, e che vuoi bene ad Arthur Stuart non meno di mia moglie.»
Il modo in cui lo disse fece ad Alvin una strana impressione. «Perché, voi non gli volete bene, signore?»
Horace guardò Alvin come se quest’ultimo fosse impazzito. «Da questa casa nessuno porterà mai via con la forza un piccolo mulatto, Alvin.»
Goody Guester scese le scale con due borse di stoffa piene di vestiti. «Portami in città, Horace Guester.»
Sulla strada davanti alla locanda udirono passare un gruppo di cavalieri.
«Devono essere loro» mormorò Alvin.
«Non preoccuparti, Peg» fece Horace.
«Non preoccuparti, hai detto?» La vecchia Peg si rivoltò come una furia. «Questa storia può finire solo in due modi, Horace. O perdo mio figlio, ridotto in schiavitù al Sud, o quel pazzo di mio marito probabilmente si farà ammazzare cercando di salvarlo. Hai ragione, non devo preoccuparmi.» Poi scoppiò in lacrime e abbracciò Horace così forte che Alvin si sentì spezzare il cuore.
Alla fine fu Alvin a portare in città Goody Guester col carro della locanda. Quindi restò nell’ufficio dello sceriffo finché la vecchia Peg non ebbe convinto Pauley Wiseman a lasciarle trascorrere la notte in cella, anche se Wiseman le fece giurare sotto pena delle più tremende sventure che non avrebbe tentato di far scappare Arthur Stuart di prigione.
Mentre la conduceva verso la porta della cella, Pauley Wiseman disse: «Non dovete essere così agitata, Goody Guester. Il suo padrone è sicuramente un brav’uomo. Da queste parti la gente ha un’idea sbagliata della schiavitù».
La vecchia Peg si voltò di scatto. «Allora perché al suo posto non ci vai tu, Pauley? Così potrai verificare quant’è divertente.»
«Io?» Wiseman parve divertito. «Ma io sono Bianco, Goody Guester. La schiavitù non è la mia condizione naturale.»
Alvin fece sfuggire le chiavi di mano a Pauley Wiseman.
«Guarda un po’ che sbadato» disse lo sceriffo.
Il piede della vecchia Peg si posò con naturalezza sul mazzo di chiavi.
«Alzate immediatamente quel piede, Goody Guester» tuonò lo sceriffo «o v’incrimino non solo per resistenza alla forza pubblica, ma anche per complicità e connivenza.»
La vecchia Peg alzò il piede. Lo sceriffo aprì la porta della cella. La vecchia Peg entrò prendendo immediatamente tra le braccia Arthur Stuart. Alvin guardò Pauley-Wiseman chiudere la porta a chiave. Poi se ne tornò a casa.
Alvin spaccò lo stampo e spazzolò via l’argilla che ancora aderiva alla superficie del metallo. Il ferro era liscio e duro, e quel vomere era il migliore che Alvin avesse visto fino a quel momento. Lo sondò all’interno e non vi trovò difetti, per lo meno non così vistosi da pregiudicare la qualità del metallo. Quindi limò e spazzolò, spazzolò e limò finché la superficie non diventò perfettamente liscia, e il taglio così affilato da far pensare che non avrebbe sfigurato neanche su un bancone di macellaio. Allora lo sollevò, mettendolo in bella vista sul banco da lavoro. Poi sedette, in attesa, mentre il sole spuntava all’orizzonte e il resto del mondo si svegliava.
A tempo debito, Makepeace uscì di casa, entrò nella fucina ed esaminò accuratamente il vomere. Ma Alvin non se ne accorse, perché nel frattempo si era addormentato. Makepeace lo svegliò di quel tanto che bastava a farlo tornare a casa sulle sue gambe.
«Povero ragazzo» borbottò Gertie. «Mi sa che stanotte non ha chiuso occhio. Scommetto che è rimasto in bottega a lavorare a quello stupido vomere per tutta la notte.»
«Il vomere sembra a posto.»
«Il vomere sembra perfetto, scommetto, conoscendo Alvin.»
Makepeace fece una smorfia. «Che ne sai tu di lavori in ferro?»
«Conosco Alvin e conosco te.»
«Strano ragazzo. La sai una cosa, però? I lavori più belli li fa quando resta sveglio per tutta la notte.» Makepeace lo disse in tono quasi affettuoso. Ma Alvin si era ormai riaddormentato nel suo letto e non poté udirlo.
«È così affezionato a quel mulattino» mormorò Gertie. «Non c’è da stupirsi che non riuscisse a dormire.»
«Ora dorme» le fece notare Makepeace.
«Immagina Arthur Stuart ridotto in schiavitù, alla sua età poi!»
«La legge è legge» tagliò corto Makepeace. «Non posso dire che mi piaccia, ma bisogna adattarsi.»
«Tu e la legge» sbottò Gertie. «Sono contenta che non viviamo dall’altra parte dell’Hio, Makepeace, o penso proprio che al posto di un apprendista prenderesti volentieri qualche schiavo… Ammesso che tu sappia distinguere le due cose.»
Era una dichiarazione di guerra in piena regola, e i due sarebbero stati pronti a ingaggiare uno dei loro proverbiali litigi con urla, vestiti strappati e piatti rotti, sennonché in soffitta c’era Alvin che russava di gusto e di conseguenza si limitarono a scambiarsi un’occhiata da incenerire. Poiché tutti i loro litigi andavano a finire nello stesso modo, con gli stessi insulti dati e ricevuti e le stesse crudeltà fatte e subite, era come se quella volta si fossero stancati ancor prima di cominciare e si fossero detti: «Facciamo finta che io abbia detto tutte le cose che ti fanno più male al mondo e che tu abbia fatto lo stesso con me, e non pensiamoci più».
Alvin non dormì né a lungo né bene. La paura, la rabbia e l’eccitazione gl’impedivano di star fermo, o di abbandonarsi alla corrente dei sogni. Si svegliò sognando un vomere di ferro che si trasformava in oro. Si svegliò nuovamente sognando Arthur Stuart che veniva frustato. Si svegliò di nuovo sognando di puntare un fucile verso uno di quei Cacciatori e premere il grilletto. Si svegliò ancora una volta sognando di puntare il fucile verso un Cacciatore e non premere il grilletto, e poi guardarli mentre se ne andavano tirandosi dietro Arthur che strillava a perdifiato: «Alvin, dove sei? Alvin, non lasciare che mi portino via!»
«Svegliati o sta’ zitto!» gridò Gertie. «Mi spaventi i bambini.»
Alvin aprì gli occhi e si sporse dal bordo del soppalco. «Ma se i bambini non ci sono nemmeno.»
«Allora spaventi me. Non so cosa stavi sognando, ragazzo, però spero che un sogno del genere non capiti neanche al mio peggiore nemico… che stamattina si dà il caso sia mio marito, se vuoi sapere la verità.»
Sentendo ricordare Makepeace, Alvin si svegliò di colpo. Proprio così. S’infilò i calzoni, chiedendosi quando e come fosse finito sul soppalco, e chi gli avesse sfilato i calzoni e gli stivali. In quel breve volgere di tempo, Gertie era riuscita — non si sa come — a mettergli sul tavolo la colazione: pane di mais, formaggio e una cucchiaiata di melassa. «Non ho tempo di mangiare, signora» disse Alvin. «Mi spiace, ma devo…»