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Fu il filo che ancora li univa da cuore a cuore a dare ad Alvin l’idea giusta… Quel filo e il ricordo di ciò che aveva detto Pettirosso, per bocca dello stesso Arthur Stuart. Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea. Alvin si tolse a sua volta la camicia, entrò nel fiume e s’inginocchiò in maniera da avere il viso allo stesso livello di quello di Arthur Stuart, mentre l’acqua fresca gli lambiva delicatamente la vita. Poi tese le braccia, trasse a sé Arthur Stuart e lo tenne stretto, petto contro petto, le mani sulle spalle.

«Credevo che nessuno dovesse toccarlo» disse Po.

«Chiudi il becco, maledetto idiota» tagliò corto Horace Guester. «Alvin sa quello che fa.»

Quanto vorrei che fosse vero, pensò Alvin. Ma per lo meno aveva un’idea di che cosa fare, ed era già meglio di nulla. Ora che la loro pelle era a contatto, Alvin poteva guardarla da vicino e confrontare la sigla segreta di Arthur Stuart con la propria. Per lo più era identica, assolutamente identica, e Alvin ne ricavò la conclusione che fosse la parte che li rendeva entrambi esseri umani anziché mucche, rane, porci o galline. E quella parte non avrebbe mai osato cambiarla, nemmeno per idea.

Il resto… lo posso cambiare, pensò. Ma non a casaccio. A che mi servirebbe salvarlo se poi diventasse giallo come un limone o magari completamente idiota?

Così Alvin fece l’unica cosa che gli parve sensata. Trasformò alcuni pezzetti della sigla di Arthur in modo che diventasse esattamente come quella di Alvin. Non tutto ciò che gli appariva diverso, no, non arrivò a tanto. Solo una piccolissima parte. Ma anche quella piccolissima parte significava che Arthur aveva smesso di essere completamente se stesso per cominciare a essere in parte simile ad Alvin. Alvin pensò che quello che stava facendo era terribile e meraviglioso al tempo stesso.

Quanto? Quanto di Arthur avrebbe dovuto cambiare perché i Cacciatori non fossero più in grado di riconoscerlo? Certamente non tutto. Certamente questo sarebbe bastato, solo questi cambiamenti. Non c’era modo di averne la certezza. Alvin non poteva fare altro che seguire il suo intuito. Perciò così fece.

Ma quello fu solo l’inizio, si capisce. Alvin prese infatti a cambiare le altre sigle in modo che fossero tutte uguali alla prima, in ciascun frammento dell’organismo vivente di Arthur, uno alla volta, più in fretta che poteva. A decine, a centinaia; ogni nuova sigla che trovava, Alvin la trasformava in modo che seguisse in tutto e per tutto il nuovo disegno.

Ne cambiò a centinaia, a migliaia, e ancora non aveva trasformato che una minuscola porzione di pelle del torace di Arthur. Come poteva pensare di trasformare tutto il suo corpo, procedendo così lentamente?

«Mi fa male» sussurrò Arthur.

Alvin si staccò da lui. «Non sto facendo niente che possa farti del male, Arthur Stuart.»

Arthur si guardò il petto. «Proprio qui» disse, toccandosi nel punto in cui Alvin aveva operato il cambiamento.

Alvin lo guardò al chiaro di luna e vide che effettivamente quel punto sembrava gonfio e più scuro. Guardò di nuovo, stavolta non con gli occhi, e vide che il resto del corpo di Arthur stava attaccando la parte trasformata da Alvin, distruggendola frammento per frammento, più in fretta che poteva.

Ma certo. Che cosa si era aspettato? Quella sigla era il modo in cui il corpo di Arthur riconosceva se stesso: ecco perché ogni frammento di un organismo vivente deve recare la stessa sigla. Se la sigla era diversa, il corpo sapeva che doveva trattarsi di una malattia o di qualcosa del genere, e partiva immediatamente all’attacco. Non era già abbastanza disastroso che per trasformare Arthur ci volesse tutto quel tempo? Ora Alvin capiva che, anche trasformandolo, non sarebbe arrivato a nulla… Più lo cambiava, più Arthur sarebbe stato male e il suo corpo avrebbe cercato di autodistruggersi finché il ragazzo non fosse morto o la parte trasformata non fosse andata perduta.

Era proprio come nella fiaba che una volta gli aveva narrato Scambiastorie, in cui qualcuno cercava di costruire un muro così lungo che a metà dell’opera la parte costruita aveva già cominciato a crollare riducendosi in polvere. Com’è possibile costruire un muro del genere se crolla più in fretta di quanto uno possa costruirlo?

«Non ci riesco» disse Alvin. «Sto cercando di fare una cosa impossibile.»

«Se non ci riesci tu» intervenne Po Doggly «allora spero che tu sappia volare, perché è l’unico modo in cui il ragazzo potrebbe arrivare in Canada senza essere riacchiappato dai Cacciatori.»

«Non ci riesco» ripeté Alvin.

«Sei solo stanco» disse Horace. «Cerchiamo di stare zitti, in modo che tu possa riflettere.»

«È lo stesso» mormorò Alvin.

«La mia mamma sapeva volare» disse Arthur Stuart.

Alvin sospirò d’impazienza nel sentir ripetere la solita vecchia storia.

«È vero» confermò Horace. «Me l’ha detto la piccola Peggy. Quella piccola schiava nera ha impastato insieme un po’ di cenere, qualche penna di corvo e via dicendo, ed è volata fin quaggiù. È per questo che è morta. La prima volta che mi sono reso conto che il bambino se ne ricordava non riuscivo a crederlo, e abbiamo sempre tenuto la bocca chiusa nella speranza che se ne dimenticasse. Ma devo proprio dirtelo, Alvin, è una vergogna che quella bambina sia morta solo perché sette anni dopo tu potessi darti per vinto proprio qui sulla riva del fiume, nello stesso identico posto.»

Alvin chiuse gli occhi. «Ora state zitti e lasciatemi pensare» li pregò.

«Non l’avevo già detto?» disse Horace.

«Allora chiudi il becco anche tu» lo zittì Po Doggly.

Alvin li udì a malapena. Era tornato all’interno del corpo di Arthur per osservare nuovamente la piccola chiazza di pelle già trasformata. La nuova sigla non era cattiva in sé: l’unico punto in cui la pelle nuova si ammalava e moriva era la linea di confine con la pelle che recava ancora la vecchia sigla. Arthur non avrebbe dunque corso alcun pericolo se Alvin fosse riuscito a trasformarlo tutto insieme, anziché un pezzetto alla volta.

Alvin ripensò al modo in cui il filo era comparso non appena egli l’aveva pensato, immaginandone l’inizio e la fine e tutto il resto. Tutti gli atomi erano andati al loro posto nello stesso istante. Come il modo in cui Po Doggly e Horace Guester si muovevano in perfetta coordinazione: ciascuno intento a svolgere il proprio compito, e insieme consapevole di ciò che l’altro andava facendo.

Il filo però era fatto di una sostanza semplice e uniforme. Stavolta sarebbe stato molto più difficile… Come egli stesso aveva detto una volta alla signorina Larner: sarebbe stato come trasformare l’acqua in vino e il ferro in oro.

No, non posso pensare in questo modo. Quando ho creato il filo non ho fatto altro che insegnare agli atomi che cosa fare e dove andare, e ci sono riuscito perché ciascuno di essi era vivo e in grado di obbedirmi. Ma, all’interno del corpo di Arthur, non ho a che fare con singoli atomi, bensì con pezzetti di sostanza vivente, ciascuno dei quali dotato di vita propria. Forse è la sigla stessa a renderli vivi, forse posso insegnare a ciascuno di essi che cosa deve fare, invece di muoverne una minuscola parte alla volta. Potrei dir loro: «Siate così!» e loro lo faranno.

Non aveva ancora finito di pensarlo che provò a metterlo in pratica. Immaginò dunque di parlare alle sigle della pelle del torace di Arthur, rivolgendosi a tutte contemporaneamente; mostrò loro il disegno che aveva in mente, un disegno così complesso che egli stesso non era in grado di comprenderlo, a parte il fatto che era lo stesso disegno delle sigle della piccola chiazza di pelle che aveva trasformato un pezzetto alla volta. E, non appena lo mostrò, non appena ordinò loro: «Siate così! Il modo è questo!» quei pezzetti cambiarono tutti insieme, tutta la pelle del torace di Arthur Stuart si trasformò nello stesso istante.