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Un vomere d’oro che sapesse riconoscere un uomo, un vomere di cui un uomo potesse a sua volta avere fiducia, come Po Doggly conosceva Horace Guester e ciascuno dei due si fidava dell’altro. Un vomere che per avanzare non avesse bisogno di buoi, né di zavorra per affondare nel terreno. Un vomere che sapesse distinguere la terra buona da quella cattiva. Un tipo d’oro di cui il mondo non avesse mai visto l’uguale, proprio come non aveva mai visto niente di simile al filo sottilissimo che Alvin aveva gettato fra se stesso e Arthur Stuart.

Perciò Alvin s’inginocchiò, tenendo ben fermo nella propria mente il disegno dell’oro. «Diventa così» sussurrò al ferro.

Allora sentì gli atomi accorrere da ogni parte per unirsi a quelli che si trovavano già nel vomere e insieme a essi formare particelle molto più pesanti di quelle del ferro, allineate in maniera diversa, finché non si conformarono al disegno che Alvin stava loro mostrando nella propria mente.

Tra le mani ora aveva un vomere d’oro. Alvin lo strofinò con la punta delle dita. Oro, sì, giallo e lucente al bagliore della forgia, ma pur sempre morto e freddo. Come avrebbe potuto insegnargli a essere vivo? Non mostrandogli il disegno della propria carne… Non era di quel genere di vita che il vomere aveva bisogno. Si dovevano destare alla vita gli atomi che lo componevano, mostrare loro che cos’erano in confronto a ciò che avrebbero potuto essere. Accendere in essi la fiamma della vita.

La fiamma della vita. Alvin sollevò il vomere d’oro — adesso molto più pesante — e, sebbene il calore del fuoco che si andava abbassando fosse pur sempre quasi insopportabile, lo posò tra i carboni ardenti della forgia.

I due Cacciatori erano di nuovo in sella, e percorrevano tranquillamente la strada verso Hatrack, frugando con la loro seconda vista in ogni casa, baracca o capanna, sollevando davanti a sé il contrassegno per confrontarlo con le fiamme vitali che scorgevano all’interno. Ma non ne trovarono nessuna che corrispondesse. Passando davanti alla fucina si accorsero che all’interno ardeva una fiamma vitale, ma non apparteneva al piccolo mulatto fuggiasco. Doveva essere il giovane apprendista che aveva fabbricato le manette.

«Avrei voglia di ammazzarlo» mormorò il Cacciatore dai capelli neri. «Sono sicuro che è stato lui a gettare l’incantesimo sulle manette…»

«Ne avrai tutto il tempo quando avremo trovato il carboncino» disse il Cacciatore dai capelli bianchi.

Nel vecchio deposito sulla sorgente videro ardere due fiamme vitali, ma nessuna delle due corrispondeva ai frammenti racchiusi nel contrassegno, per cui i Cacciatori proseguirono il loro cammino.

Il fuoco era penetrato profondamente nell’oro, ma questo aveva semplicemente incominciato a fondere. No, così non andava: il vomere aveva bisogno di vita, non della morte del metallo sotto l’azione del fuoco. Alvin tenne ferma nella mente la forma del vomere e la mostrò a ogni particella di metallo; silenziosamente gridò a ogni atomo: «Non è sufficiente che siate allineati nelle piccole forme dell’oro… Dovete mantenere questa forma più grande, senza curarvi del fuoco, senza curarvi di qualsiasi altra forza possa cercare di comprimervi, strapparvi, sciogliervi o danneggiarvi!»

Alvin sentì che l’oro l’aveva udito. Nel vomere percepì un movimento, un movimento che andava in senso contrario al lento defluire dell’oro liquefatto. Ma non era abbastanza forte, non era abbastanza sicuro. Senza pensare, Alvin tese le mani tra le fiamme e le posò sul metallo, mostrandogli la forma dell’aratro, gridandogli in cuor suo: «Così! Diventa così! Questo è ciò che sei!» Ah, il dolore che provava era straziante, tuttavia Alvin sapeva che per le sue mani quello era il posto giusto in cui trovarsi, perché il Creatore è parte di ciò che crea. Gli atomi lo udirono e si ricombinarono in maniere cui Alvin non avrebbe mai pensato, ma il risultato fu che l’oro adesso era in grado di sopportare il calore del fuoco senza sciogliersi, senza perdere la propria forma. Era fatta; l’oro non era vivo, almeno non nel modo in cui Alvin avrebbe voluto, eppure poteva resistere senza fondersi al fuoco della forgia. Quell’oro era diventato qualcosa di più dell’oro. Era oro che sapeva di essere un vomere e voleva restare tale.

Alvin staccò le mani dal vomere e vide che le fiamme ancora gli danzavano sulla pelle, a tratti carbonizzata al punto da staccarsi dall’osso. In silenzio tuffò le mani nel mastello dell’acqua e udì lo sfrigolio del fuoco che si spegneva sulla sua stessa carne. Poi, prima che il dolore lo investisse in tutta la sua violenza, si accinse a guarirsi, spogliandosi della pelle bruciata e facendone crescere di nuova.

Ritto in piedi, indebolito dallo sforzo che il suo corpo doveva sostenere per rigenerare la pelle delle mani, fissava il vomere d’oro tra le fiamme balenanti della forgia. Il vomere se ne stava lì, conosceva la propria forma e non la mutava, però questo non bastava a renderlo vivo. Doveva sapere perché viveva. Doveva sapere quale fosse il suo fine, per poter agire in modo da raggiungerlo. Questo e non altro era creare, capì finalmente Alvin; questo era ciò che Pettirosso gli aveva detto tre anni prima. Creare non aveva niente a che fare col mestiere del fabbro, del falegname o di chiunque altro si sforzasse di tagliare, piegare e fondere le cose per costringerle ad assumere una forma nuova e diversa. Creare era qualcosa di più sottile e potente: era fare in modo che le cose volessero diventare diverse, volessero assumere una nuova forma, così che fossero le cose stesse a trasformarsi sino ad assumere la forma desiderata. In fondo era qualcosa che Alvin faceva da anni senza rendersene conto. Quando credeva di trovare nella roccia fessure invisibili, in realtà era lui stesso a creare quelle fessure; immaginando il punto in cui desiderava che si trovassero e mostrandolo agli atomi all’interno dei frammenti che costituivano i pezzi di roccia, insegnava loro a desiderare la forma che egli stesso aveva loro mostrato.

Ora, con quel vomere, aveva fatto la stessa cosa, non casualmente bensì deliberatamente; aveva insegnato all’oro a diventare qualcosa di più forte, a conservare la propria forma in maniera più tenace di qualsiasi cosa egli avesse creato fino a quel momento. Ma come insegnare all’oro qualcosa di più, insegnargli ad agire, a muoversi in modi finora sconosciuti?

In qualche angolo della mente, tuttavia, sapeva che il vero problema non era il vomere d’oro. Il vero problema era la Città di Cristallo, e i blocchi da costruzione in quel caso non sarebbero stati semplicemente gli atomi di un vomere di metallo. Gli atomi di una città sono gli uomini e le donne che vi abitano, e gli esseri umani non credono alla forma che viene loro mostrata con la semplice fede degli atomi, non la comprendono con tanta immediata chiarezza e, quando agiscono, le loro azioni non sono altrettanto pure. Ma se riesco a insegnare a quest’oro a essere un vomere vivo, pensò Alvin, allora forse posso creare una Città di Cristallo fatta di uomini e donne; forse posso trovare esseri umani puri come gli atomi d’oro, capaci di comprendere la forma della Città di Cristallo e di amarla come l’ho amata io quando l’ho vista salendo all’interno della tromba d’aria insieme a Tenska-Tawa. Allora non solo manterranno la forma, ma la faranno anche agire, trasformeranno la Città di Cristallo in una creatura vivente molto più grande e potente di ciascuno di noi che ne saremo gli atomi.