Il Creatore è colui che è parte di ciò che crea.
Alvin corse al mantice e ravvivò il fuoco finché il letto di carboni non fu talmente caldo che qualsiasi altro fabbro sarebbe corso all’aperto in attesa che il fuoco si abbassasse. Ma Alvin no. Si avvicinò alla forgia e con un rapido movimento si gettò in mezzo alle fiamme. Sentì che i vestiti prendevano fuoco cadendogli di dosso, eppure non vi prestò alcuna attenzione. Si rannicchiò sul vomere e poi cominciò a guarirsi, non un pezzo alla volta, non un poco alla volta, ma dicendo al suo corpo, tutto insieme: «Resta vivo! Fai entrare nel vomere il fuoco che ti sta bruciando!»
E nello stesso tempo disse al vomere: «Fa’ come il mio corpo! Vivi! Impara da ogni frammento della mia carne viva che ogni parte ha uno scopo, e vive per realizzarlo! Non posso mostrarti la forma che devi assumere, o come fare ad assumerla, perché non la conosco. Ma posso mostrarti che cosa significa essere vivi, con il dolore che strazia il mio corpo, con il modo in cui esso cura se stesso, con lo sforzo accanito di restare in vita. Sii così! Qualunque sacrificio questo ti richieda, per quanto duro ti sia imparare, questo sei tu, sii come me!»
Scosso da un tremito convulso sul letto di carboni ardenti, ad Alvin parve che trascorresse un tempo lunghissimo, mentre il suo corpo lottava con il calore, trovando il modo d’incanalarlo come le rive di un fiume ne incanalano l’acqua, riversandolo nell’aratro come in un oceano d’oro infuocato. E, all’interno del vomere, gli atomi lottavano per fare ciò che Alvin chiedeva, volevano obbedirgli ma non sapevano come. Il suo richiamo tuttavia era potente, troppo potente per non essere ascoltato; e gli atomi non si limitarono a udirlo. Era come se comprendessero che ciò che egli voleva da loro era un bene. Gli atomi si fidavano di lui, desideravano diventare il vomere vivente che egli aveva sognato, e così in un milione d’istanti così brevi che in confronto un secondo pareva un’eternità, tentarono questo, tentarono quello, finché da qualche parte all’interno del vomere d’oro si creò un nuovo disegno che seppe di essere vivo esattamente come Alvin voleva; e in un unico istante quel disegno si diffuse in tutto il vomere, e il vomere prese vita.
Vita. Alvin lo sentì muoversi all’interno della curva del suo corpo mentre il vomere s’insinuava nei carboni del fuoco cercando di fenderli e solcarli come il suolo di un campo. E poiché era suolo sterile, un suolo da cui non sarebbe potuta nascere nessuna forma di vita, l’aratro subito ne uscì, scivolando verso l’esterno, allontanandosi verso il bordo della forgia. Si mosse perché aveva deciso di essere altrove, e subito aveva messo in atto la propria decisione; quando raggiunse il bordo della forgia, si ribaltò cadendo sul pavimento della fucina.
Straziato dal dolore, Alvin rotolò fuori dal fuoco cadendo a sua volta, e anch’egli giacque premendo il viso sulla fresca terra battuta del pavimento. Ora che il fuoco non lo circondava più, il suo corpo riuscì ad avvantaggiarsi sulla morte della pelle, curandosi come Alvin gli aveva insegnato a fare, senza che egli avesse bisogno di spiegargli che cosa fare, senza istruzioni di sorta. Diventa te stesso, così Alvin gli aveva ordinato, e la sigla racchiusa in ogni frammento vivente obbedì al disegno in essa contenuto, finché il suo corpo non fu nuovamente integro e perfetto, senza la minima traccia di bruciature o di callosità.
Ciò che Alvin non poté cancellare fu il ricordo della sofferenza, o la debolezza per tutta l’energia che il suo corpo aveva profuso. Ma non se ne curò. Debole com’era, in cuor suo era felice, perché il vomere che giaceva accanto a lui sul pavimento di terra battuta era fatto d’oro vivente, non perché egli l’avesse creato così, ma perché gli aveva insegnato a crearsi da solo.
I Cacciatori perlustrarono la città in lungo e in largo ma non trovarono nulla… Eppure il Cacciatore dai capelli neri non aveva visto scappare nessuno, nemmeno frugando i dintorni della città fino alla massima distanza che un uomo o un cavallo avrebbero potuto percorrere da quando il ragazzo era stato sottratto alla loro custodia. Il piccolo mulatto doveva per forza essere nascosto da qualche parte… Un evento impossibile, eppure non c’era altra spiegazione.
Molto probabilmente si nascondeva negli stessi luoghi in cui aveva vissuto per tutti quegli anni. La locanda, il vecchio deposito, la fucina: tutti luoghi in cui si scorgeva gente sveglia a un’ora del tutto inconsueta. I Cacciatori giunsero fino a breve distanza dalla locanda, quindi legarono i cavalli sul ciglio della strada. Caricati fucili e pistole, proseguirono a piedi. Giunti di fronte alla locanda, la frugarono di nuovo con la loro seconda vista, esaminando tutte le fiamme vitali che conteneva; nessuna di esse corrispondeva al contrassegno.
«La casetta della maestra» disse il Cacciatore dai capelli bianchi. «È lì che l’abbiamo trovato la prima volta.»
Il Cacciatore dai capelli neri rivolse lo sguardo in direzione del pendio. Naturalmente non poteva vedere il vecchio deposito, nascosto dagli alberi, ma ciò che cercava l’avrebbe visto comunque, alberi o non alberi. «Lassù ci sono due persone» disse.
«Allora una potrebbe essere il mulatto» azzardò il Cacciatore dai capelli bianchi.
«Il contrassegno dice di no.» Poi il Cacciatore dai capelli neri sorrise beffardamente. «Una maestra senza marito che vive da sola e riceve un ospite a quest’ora di notte? Lo so io di che compagnia si tratta, e sta’ sicuro che non è un ragazzino.»
«Andiamo a vedere comunque» lo incitò il Cacciatore dai capelli bianchi. «Se hai ragione, dopo che le avremo sfondato la porta non si sognerà nemmeno di reclamare. Non vorrà certo che qualcuno vada a raccontare in giro che cosa stava facendo.»
A quell’idea si fecero una bella risata, dirigendosi al chiar di luna verso la casa della signorina Larner. La loro intenzione, si capisce, era di aprire la porta con un calcio e sbellicarsi dal ridere quando la maestra si sarebbe incollerita e avrebbe cominciato a minacciarli.
La cosa buffa fu che, quando giunsero nei pressi della casetta, quel piano svanì dai loro pensieri come se non fosse mai esistito. Se l’erano completamente dimenticato. I due Cacciatori si limitarono a osservare le fiamme vitali all’interno del vecchio deposito e a confrontarle con il contrassegno.
«Che diavolo stiamo facendo quassù?» chiese il Cacciatore dai capelli bianchi. «Il ragazzo dev’essere per forza alla locanda. Qui non è di sicuro!»
«Lo sai che penso?» disse il Cacciatore dai capelli neri. «Forse l’hanno ammazzato.»
«Sarebbe pura follia. Perché salvarlo, allora?»
«Hai un’altra idea?»
«È alla locanda. Scommetto che quelli là hanno un talismano che non ci permette di vederlo. Ma quando apriremo la porta giusta, lo vedremo in faccia; e allora non ci saranno più talismani che tengano.»
Per un attimo il Cacciatore dai capelli neri pensò… Be’, se possono esistere talismani del genere, perché non guardare anche in casa della maestra? Perché non aprire questa porta?
Ma un istante dopo quel pensiero gli sfuggì di mente e lui lo dimenticò. Nemmeno si rese conto di avere pensato qualcosa. Si limitò a mettersi in cammino di buon passo seguendo il Cacciatore dai capelli bianchi. Il carboncino dev’essere per forza alla locanda, non ci sono altre spiegazioni.
Peggy vide le fiamme vitali dei Cacciatori avvicinarsi al vecchio deposito, ma non ebbe paura. Aveva trascorso tutto quel tempo a esplorare la fiamma vitale di Arthur Stuart, e non vi aveva trovato alcun sentiero in cui egli venisse catturato da quei due. Peggy sapeva che nel futuro di Arthur non mancavano i pericoli, ma quella notte sicuramente nessuno gli avrebbe fatto del male. Perciò non prestò loro particolare attenzione. Seppe quando decisero di andarsene; seppe quando il Cacciatore dai capelli neri pensò di aprire ugualmente quella porta; seppe quando i talismani lo fermarono, ricacciandolo via. Ma nel frattempo continuava a osservare Arthur Stuart, scandagliando i possibili futuri che lo attendevano.