Poi, a un tratto, non poté più mentire a se stessa. Doveva dirlo ad Alvin, doveva raccontargli quel che era successo, nel bene e nel male. Ma come? Come spiegargli che la signorina Larner in realtà era una fiaccola che nella fiamma vitale di Arthur Stuart aveva appena visto sbocciare un milione di possibili futuri? Tenersi tutto dentro, però, era impossibile. Anni prima avrebbe potuto dirlo a Modesty, quando ancora viveva con lei e tra loro non vi era alcun segreto.
Sarebbe stata pura follia scendere alla fucina, ben sapendo che a muoverla era il desiderio di rivelare ad Alvin cose che non avrebbe potuto dirgli senza tradire la propria vera identità. Eppure restare confinata tra quelle quattro pareti, sola con una conoscenza che non poteva spartire con nessuno, l’avrebbe sicuramente fatta impazzire.
Perciò Peggy si alzò, aprì la porta e mosse un passo oltre la soglia. Intorno al vecchio deposito non si scorgeva anima viva. Allora chiuse la porta a chiave; poi scrutò nuovamente nella fiamma vitale di Arthur e vide che nell’immediato il ragazzo non correva alcun pericolo. Sarebbe stato al sicuro. E Peggy avrebbe visto Alvin.
Solo in quel momento guardò nella fiamma vitale di Alvin; solo in quel momento vide la terribile sofferenza che egli aveva patito pochi istanti prima. Perché non se n’era accorta? Perché non l’aveva visto? Alvin aveva appena attraversato la soglia più importante della sua vita; aveva compiuto per la prima volta un vero atto di Creazione, aveva dato alla luce qualcosa di nuovo; e lei non l’aveva visto. Quando Alvin aveva affrontato il Distruttore e lei si trovava nella lontana Dekane, aveva assistito alla sua lotta… E ora, che egli si trovava a non più di tre pertiche di distanza, perché non aveva guardato? Perché non aveva condiviso la sua sofferenza mentre egli si contorceva tra le fiamme della forgia?
Forse era colpa del vecchio deposito. Una volta, quasi diciannove anni prima, il giorno in cui Alvin era venuto al mondo, il deposito sulla sorgente aveva intorpidito il suo dono, cullando il suo sonno finché non era stato quasi troppo tardi. Ma no, era impossibile… L’acqua non attraversava più il pavimento del deposito, e il fuoco della fucina sarebbe stato comunque più potente.
Forse era stato il Distruttore, venuto a fermarla. Eppure, rivolgendo intorno a sé il proprio sguardo da fiaccola, Peggy non riuscì a scorgere tra i colori del mondo che la circondava una sola ombra insolita, per lo meno non nelle vicinanze. Niente che avesse potuto accecarla.
No, ad accecarla doveva essere stata la natura stessa di ciò che Alvin aveva fatto. Proprio com’era accaduto anni prima, quando Peggy non era riuscita a vedere in che modo era uscito sano e salvo dal confronto col Distruttore, o quella notte stessa quando non lo aveva visto trasformare il piccolo Arthur sulla riva dell’Hio, così non le era stato dato di vedere ciò che lui aveva fatto nella fucina. La creazione che egli aveva compiuto quella notte andava oltre i futuri che il dono di Peggy era in grado di scorgere.
Sarebbe stato sempre così? Sarebbe rimasta sempre accecata quando Alvin vinceva le sue battaglie più importanti? Peggy provò rabbia e paura insieme: a che serve il mio dono, si disse, se mi abbandona proprio quando ne avrei più bisogno?
No. Stavolta non mi sarebbe servito a nulla. Quando Alvin si è gettato tra le fiamme non aveva alcun bisogno di me o della mia seconda vista. Il mio dono non mi ha mai abbandonato quando ne avevo veramente bisogno. In questo caso, è soltanto il mio desiderio a essere rimasto irrealizzato.
Bene. Ora però Alvin ha bisogno di me, pensò Peggy. S’incamminò badando bene a dove metteva i piedi; la luna era bassa sull’orizzonte, le ombre fitte, il sentiero in discesa traditore. Quando svoltò l’angolo della fucina, la luce della forgia che si riversava sull’erba era quasi accecante, di un rosso così violento che l’erba non appariva più verde bensì di un nero lucente.
All’interno della fucina, Alvin giaceva rannicchiato sul pavimento di terra battuta col viso rivolto alla forgia. Il suo respiro era rapido, affannoso. Dormiva? No. Era nudo; a Peggy bastò un istante per rendersi conto che il calore della forgia doveva avergli bruciato i vestiti. Straziato dal dolore com’era, Alvin non se n’era accorto, e adesso non ne serbava alcun ricordo; per questo Peggy non l’aveva visto accadere quando aveva frugato la sua fiamma vitale in cerca di ricordi.
La sua pelle era straordinariamente liscia e pallida. Qualche ora prima, Peggy l’aveva vista abbronzata dal sole e dal calore della forgia. Qualche ora prima, egli aveva avuto mani callose e segnate dalle cicatrici d’innumerevoli piccole scottature, i normali incidenti di chi lavora vicino al fuoco. Ora invece la sua pelle era liscia e intatta come quella di un bambino. Peggy non riuscì a trattenersi; varcò la soglia della fucina, s’inginocchiò accanto a lui, e gli fece scorrere delicatamente la mano sulla schiena, dalla spalla al punto in cui il torace si restringeva sopra le anche. La pelle di Alvin era così morbida da darle l’impressione che le mani le si fossero improvvisamente irruvidite, e che il semplice atto di toccarlo potesse in qualche modo deturparlo.
Alvin trasse un profondo sospiro. Quasi un gemito. Peggy ritirò la mano.
«Alvin» disse. «Stai bene?»
Alvin mosse il braccio; stringeva a sé qualcosa e lo carezzava. Solo in quel momento Peggy lo vide: un riflesso giallo nell’ombra doppiamente fitta del corpo di Alvin e della forgia. Un vomere d’oro.
«È vivo» mormorò Alvin.
Quasi in risposta, Peggy scorse il vomere muoversi fluidamente sotto la mano di Alvin.
Naturalmente non bussarono. A quell’ora di notte? Chi si trovava all’interno avrebbe capito immediatamente che non si trattava di un ospite ritardatario… Potevano essere solo i Cacciatori. Bussare alla porta avrebbe messo immediatamente sull’avviso gli abitanti della locanda, favorendo eventuali tentativi di fuga insieme al ragazzo.
Ma il Cacciatore dai capelli neri non provò nemmeno a sollevare il paletto. Sferrò una violenta pedata e la porta rovinò verso l’interno, portandosi dietro il cardine più alto. Poi, col fucile imbracciato, varcò d’un balzo la soglia perlustrando con lo sguardo la sala comune. Alla fioca luce del fuoco che si andava spegnendo, i due videro che non c’era nessuno.
«Io tengo d’occhio le scale» disse il Cacciatore dai capelli bianchi. «Tu vai a controllare la porta sul retro per vedere se qualcuno cerca di svignarsela da quella parte.»
Il Cacciatore dai capelli neri avanzò in fretta passando davanti alle scale e alla porta di cucina. Giunto all’ultima porta la spalancò. Prima che il battente si richiudesse, il Cacciatore dai capelli bianchi era già arrivato a metà delle scale.
La vecchia Peg uscì carponi da sotto il tavolo di cucina. Nessuno dei due aveva degnato della minima attenzione quella porta. Lei non sapeva di chi si trattasse, naturalmente, ma sperava, sperava che fossero i Cacciatori, tornati indietro di soppiatto perché in qualche modo, per qualche miracolo, Arthur Stuart era riuscito a scappare e loro non riuscivano più a trovarlo. La vecchia Peg si tolse le scarpe e dalla cucina avanzò cautamente sul pavimento della sala comune, verso il caminetto sopra cui Horace teneva appeso un fucile carico. Si alzò in punta di piedi e lo staccò, ma così facendo rovesciò una teiera di latta che, nel corso della serata, qualcuno aveva lasciato a scaldare davanti al fuoco. La teiera rotolò rumorosamente; l’acqua bollente le schizzò sui piedi nudi; la vecchia Peg si lasciò sfuggire un grido soffocato.
Immediatamente udì un rumore di passi sui gradini di legno. Ignorando il dolore, corse ai piedi delle scale, appena in tempo per veder scendere il Cacciatore dai capelli bianchi. L’uomo aveva un fucile puntato verso di lei. Anche se non aveva mai sparato a un essere umano in vita sua, la vecchia Peg non esitò un solo istante. Tirò il grilletto; il fucile le rinculò violentemente contro la pancia, mozzandole il fiato e sbattendola contro il muro accanto alla porta di cucina. Ma lei quasi non se ne accorse. Vide soltanto che il Cacciatore dai capelli bianchi era rimasto immobile, col viso che improvvisamente gli si rilassava fino ad assumere l’espressione stolida del muso di una mucca. Poi sulla camicia gli fiorì una grande macchia rossa, e l’uomo si abbatté all’indietro.