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Alvin tornò a passo lento sulla strada. Stava arrivando altra gente… però lui non vi fece caso. Solo Mock Berry parve capire che cosa stava accadendo. Condusse Alvin a casa sua: Anga lo lavò da capo a piedi e Mock gli prestò una camicia e un paio di pantaloni. Quando Alvin fece ritorno alla fucina, il cielo a est cominciava a impallidire.

Makepeace era seduto su uno sgabello all’ingresso della fucina, e guardava il vomere d’oro posato sul pavimento davanti alla forgia, nello stesso punto in cui Alvin l’aveva lasciato.

«Non c’è male come saggio finale» commentò.

«Credo di sì» disse Alvin. Si avvicinò al vomere e si chinò a prenderlo. Il vomere balzò letteralmente nelle mani di Alvin — ora non era più così pesante -, comunque, anche se Makepeace aveva notato che si era mosso da solo prima che Alvin lo toccasse, si astenne dal fare commenti.

«Ho un bel po’ di rottami di ferro, là dietro» riprese Makepeace. «Non ti chiedo nemmeno di fare a metà. Basta che me ne lasci una piccola parte, quando li trasformerai in oro.»

«Non trasformerò in oro più niente» disse Alvin.

Makepeace andò su tutte le furie. «Ma questo è oro, idiota che non sei altro! Un vomere così vorrebbe dire non patir più la fame, non dover più lavorare, vivere in una bella casa e non in quella catapecchia! Vorrebbe dire qualche vestito nuovo per Gertie e magari un abito completo per me! Vorrebbe dire che incontrandomi in città la gente mi direbbe ‘buon giorno’ e si toglierebbe il cappello come si fa tra gentiluomini. Vorrebbe dire viaggiare in carrozza come il dottor Physicker, e andare a Dekane o a Carthage o in qualsiasi altro posto senza preoccuparmi della spesa. E tu vieni a raccontarmi che non trasformerai più nulla in oro

Alvin sapeva che qualsiasi spiegazione non sarebbe servita a nulla, ma ci provò ugualmente. «Questo non è oro normale, signore. Questo vomere è vivo… Non permetterei a nessuno di fonderlo per trasformarlo in monete. Senza contare che, per quanto ne so, nessuno riuscirebbe a fonderlo neanche volendo. Perciò toglietevi di mezzo e lasciatemi andare.»

«E che te ne farai. Lo userai per arare i campi? Maledetto idiota, insieme potremmo essere i re del mondo!» Ma quando Alvin lo spinse da parte per uscire dalla fucina, Makepeace smise d’implorarlo e passò alle minacce. «Per fare quel vomere d’oro hai usato il mio ferro! Quell’oro appartiene a me! Il saggio finale resta sempre di proprietà del maestro, a meno che non sia lui stesso a donarlo all’apprendista, e io me ne guardo bene! Ladro! Mi stai derubando!»

«Siete stato voi a rubarmi cinque anni di vita, quando sarei già stato pronto da un pezzo a mettermi in strada» ribatté Alvin. «E questo vomere… Be’, a fabbricarlo non ho imparato certo da voi. Questo vomere è vivo, Makepeace Smith. Non appartiene a voi, e non appartiene a me. Appartiene solo a se stesso. Perciò deponiamolo qui, in mezzo a noi, e vediamo chi se lo prenderà.»

Alvin posò il vomere sull’erba davanti a sé. Poi indietreggiò di qualche passo. Makepeace avanzò di un passo verso il vomere. Questo penetrò nel terreno sotto l’erba, quindi cominciò a fendere il suolo dirigendosi verso Alvin e fermandosi ai suoi piedi. Quando Alvin lo raccolse, sentì che era caldo. Capì subito che cosa volesse dire. «Terra buona» disse Alvin. Il vomere gli tremò fra le mani.

Makepeace era come pietrificato, con gli occhi fuori dalle orbite per la paura. «Mio Dio, ragazzo, quel vomere si è mosso

«Lo so» disse Alvin.

«Ma chi sei, ragazzo? Il demonio?»

«Non credo» sorrise Alvin. «Anche se può darsi che l’abbia incontrato un paio di volte.»

«Vattene di qui! Prenditi quella cosa e vattene! Non voglio più vedermi intorno la tua faccia!»

«Avete ancora la mia patente di libero artigiano» gli ricordò Alvin. «La voglio.»

Makepeace si frugò in tasca, ne tirò fuori un foglio piegato in quattro e lo gettò sull’erba davanti alla fucina. Poi allargò le braccia, afferrò le porte scorrevoli e le chiuse di scatto come non faceva quasi mai, neanche d’inverno. Chiusi ermeticamente i battenti, li fermò a paletto dall’interno. Povero sciocco. Se avesse voluto veramente entrare nella fucina, Alvin avrebbe potuto sfondarne le pareti senza la minima difficoltà. Il giovane fece qualche passo avanti e si chinò a raccogliere il foglio. Lo aprì e lo lesse… Era stato firmato. Era legale. Alvin era un libero artigiano.

Il sole stava per fare capolino all’orizzonte quando Alvin arrivò alla porta del vecchio deposito. Naturalmente era chiusa a chiave, ma serrature e talismani non potevano certamente fermarlo, soprattutto quando era stato lui stesso a fabbricarli. Aprì la porta ed entrò. Arthur Stuart si mosse nel sonno. Alvin gli toccò la spalla per svegliarlo. Poi s’inginocchiò accanto al letto e raccontò al ragazzo la maggior parte di ciò che era successo durante la notte. Gli mostrò il vomere d’oro facendogli vedere come si muoveva. Arthur rise di gioia. Poi Alvin gli disse che la donna che egli aveva chiamato mamma fin da quando era piccolissimo era morta, uccisa dai Cacciatori, e Arthur pianse a calde lacrime.

Ma non a lungo. Era troppo piccolo perché il dolore rimanesse in lui più di tanto. «Hai detto che anche lei ne ha ammazzato uno prima di morire?»

«Col fucile di tuo padre.»

«Brava!» disse Arthur Stuart, in tono così adulto che Alvin quasi si mise a ridere.

«L’altro l’ho ammazzato io. Quello che le aveva sparato.»

Arthur tese la mano, prese la destra di Alvin e l’aprì. «L’hai ammazzato con questa mano?»

Alvin annuì.

Arthur gli baciò il palmo.

«L’avrei guarita, se avessi potuto» spiegò Alvin. «Ma è morta troppo in fretta. Anche se fossi stato lì un istante dopo che le avevano sparato, non sarei riuscito a guarirla.»

Arthur Stuart tese le braccia, si aggrappò al collo di Alvin e pianse ancora un po’.

Ci volle un giorno per seppellire la vecchia Peg, là sulla collina accanto alle sue figlie e al fratello di Alvin, Vigor, e alla mamma di Arthur morta che era ancora una bambina. «Un luogo per gente coraggiosa» disse il dottor Physicker, e Alvin capì che aveva ragione, anche se Physicker non sapeva della piccola schiava nera.

Alvin lavò il pavimento e le scale della locanda per ripulirli dalle macchie di sangue, usando il suo dono per togliere il sangue che la liscivia e la sabbia non erano riuscite a rimuovere. Fu l’ultimo dono che poté fare a Horace e a Peggy. A Margaret. Alla signorina Larner.

«Ora devo andare» disse loro. Li aveva trovati seduti in poltrona nella sala comune della locanda, dove per tutto il giorno avevano ricevuto visite di condoglianza. «Porto Arthur dai miei, a Vigor Church. Laggiù sarà al sicuro. E poi riprenderò il cammino.»

«Grazie di tutto» disse Horace. «Sei stato un buon amico. La vecchia Peg ti voleva bene.» Poi scoppiò nuovamente in lacrime.

Alvin gli batté affettuosamente sulla spalla, poi si avvicinò a Peggy, restando in piedi di fronte a lei. «Tutto quello che sono, signorina Larner, lo debbo a voi.»

Lei scosse la testa.

«Tutto quello che vi ho detto lo pensavo davvero. E lo penso ancora.»

Lei scosse nuovamente la testa. Alvin non ne fu sorpreso. Peggy aveva appena perso sua madre, morta prima di sapere che sua figlia era tornata a casa, e Alvin non si aspettava certamente che, dopo un fatto del genere, lei potesse andarsene di casa come se non fosse successo nulla. Qualcuno doveva pur aiutare Horace Guester a mandare avanti la locanda. Era tutto molto logico. Eppure si sentiva trafiggere il cuore, perché adesso più che mai sapeva che era vero… Egli l’amava. Ma Peggy non era fatta per lui. Questo era certo. Una donna come lei, così bella, istruita e fine avrebbe potuto fargli da maestra, questo sì, ma non avrebbe mai potuto amarlo come egli l’amava.