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«Bene, allora, penso che sia il momento di salutarci» disse Alvin. Tese la mano, quantunque sapesse che era un po’ sciocco stringere la mano di qualcuno che soffriva come lei in quel momento. Ma avrebbe tanto desiderato prenderla tra le braccia e stringerla forte, come aveva fatto con Arthur Stuart quando il piccolo si era messo a piangere, e una stretta di mano era quanto di più vicino potesse esserci a ciò che desiderava.

Peggy vide il suo gesto, e gli prese la mano. Ma non la scosse come quando ci si saluta; la strinse e basta, la serrò con forza e a lungo. Alvin fu colto di sorpresa. Nei mesi e negli anni a venire, Alvin avrebbe ripensato spesso al calore di quella stretta. Forse significava che anche lei lo amava. O forse voleva dire soltanto che provava per lui l’affetto di una maestra per l’alunno, oppure lo ringraziava per aver vendicato la morte di sua madre… Alvin non aveva modo di saperlo. Eppure continuò a tenersi aggrappato a quel ricordo, nell’eventualità che fosse davvero un pegno del suo amore.

E mentre lei gli teneva la mano in quel modo, Alvin le fece una promessa; gliela fece anche se non sapeva quanto lei l’avrebbe gradita. «Tornerò» disse. «E quello che vi ho detto ieri sera sarà ancora vero.» Poi dovette chiamare a raccolta tutto il suo coraggio per chiamarla col nome che lei gli aveva consentito di usare. «Dio sia con te, Margaret.»

«Dio sia con te, Alvin» mormorò lei.

Poi Alvin andò a cercare Arthur Stuart, che era stato impegnato a sua volta con i saluti, e lo condusse fuori. Insieme andarono al fienile sul retro della locanda, dove Alvin aveva nascosto il vomere d’oro in fondo a un barile di fagioli. Il giovane alzò il coperchio e tese la mano, e il vomere riemerse da solo in uno sfolgorio d’oro. Allora Alvin lo prese, lo avvolse in un pezzo di tela, e poi lo infilò in un sacco che si gettò sulla spalla.

Alvin s’inginocchiò, tendendo la mano come faceva sempre quando voleva che Arthur Stuart gli montasse a cavalluccio. Arthur obbedì, pensando che fosse solo un gioco… Un ragazzo di quell’età non poteva restare triste per più di un paio d’ore alla volta. Così salì d’un balzo sulle spalle di Alvin, ridendo e saltando su e giù.

«Stavolta sarà una bella sgroppata, Arthur Stuart» disse Alvin. «Ce ne andiamo a casa dei miei, a Vigor Church.»

«E ce la facciamo tutta a piedi?»

«Io andrò a piedi. Tu invece andrai a cavallo.»

«Arri!» esclamò Arthur Stuart.

Alvin partì al piccolo trotto, ma in breve già correva a tutta velocità, e senza mai metter piede sulla strada. Puntò direttamente verso l’aperta campagna, traversando campi, saltando staccionate, e infine facendo ingresso nei boschi, che ancora crescevano in vaste chiazze irregolari tra l’Hio e il Wobbish, tra lui e casa sua. Il canto verde era molto più debole di quando i Rossi avevano quei territori tutti per sé. Eppure era ancora abbastanza forte perché Alvin Smith potesse udirlo. Si lasciò trasportare dal ritmo del canto verde, correndo come solo i Rossi sapevano fare. E Arthur Stuart… forse anche lui riusciva a udire un’eco del canto verde, quel tanto che bastò a farlo addormentare lì dove si trovava, sulle spalle di Alvin. Il mondo era scomparso. Solo Alvin, Arthur Stuart, il vomere d’oro… e il mondo intero che cantava intorno a lui. Adesso sono un viaggiatore. E questo è il mio primo viaggio.

XX

IL GESTO DI CAVIL

Cavil Planter aveva qualche affaruccio da sbrigare in città. Montò in sella di buon’ora in quella splendida mattina di primavera, lasciandosi alle spalle moglie e schiavi, casa e terre, ben sapendo che tutto era sotto controllo, che tutto era sempre e unicamente suo.

Verso mezzogiorno, dopo molte piacevoli visite e vari affari andati a buon fine, si fermò all’ufficio postale. Qui lo attendevano tre lettere. Due erano di vecchi amici. La terza era del reverendo Philadelphia Thrower, spedita da Carthage, capitale del Wobbish.

I vecchi amici potevano attendere. La lettera di Thrower invece conteneva sicuramente notizie dei Cacciatori assoldati da Cavil, sebbene quest’ultimo non riuscisse a capire perché a scrivergli fosse il pastore e non i Cacciatori stessi. Magari avevano incontrato difficoltà impreviste. Forse dopotutto Cavil avrebbe dovuto recarsi al Nord a testimoniare. Be’, se sarà proprio necessario ci andrò, pensò Cavil. Come dice Gesù nel Vangelo, non esiterò a lasciare le novantanove pecore del gregge per andare in cerca di quella smarrita.

Le notizie erano pessime. Entrambi i Cacciatori morti, e morta anche la moglie del locandiere che sosteneva di avere adottato il primogenito di Cavil. Quella donna se l’era meritato, pensò Cavil, e in quanto ai Cacciatori non provò nemmeno un istante di rammarico: erano soltanto dei prezzolati e, poiché non gli appartenevano, lui li considerava da meno dei suoi schiavi. Ma la notizia peggiore era senz’altro l’ultima, quella che gli mozzò il respiro e gli fece tremare le mani. L’uomo che aveva ucciso uno dei Cacciatori, un giovane apprendista fabbro, si era sottratto al processo con la fuga… e aveva portato con sé il figlio di Cavil.

Ha preso mio figlio. E il peggio doveva ancora venire. Thrower scriveva: «Conosco questo Alvin da quando era bambino, e già allora era un agente del male. È il più acerrimo nemico del nostro comune Amico, e ora ha con sé ciò che vi è più caro al mondo. Vorrei avere notizie migliori. Pregherò per voi, perché vostro figlio non venga trasformato in un pericoloso e implacabile avversario della santa opera del nostro Amico».

Di fronte a simili nuove, come poteva Cavil concludere il suo giro di commissioni? Senza una parola al direttore o a chiunque altro, Cavil si ficcò le lettere in tasca, uscì dall’ufficio postale, montò a cavallo e lo spronò verso casa. Per tutto il tragitto il suo cuore fu lacerato fra la rabbia e la paura. Com’era possibile che quella feccia emancipazionista del Nord si fosse lasciata rapire il suo schiavo, il suo primogenito, dal peggiore nemico del Sorvegliante? Andrò al Nord, gliela farò pagare, ritroverò il ragazzo, io… E poi a un tratto i suoi pensieri si rivolsero a ciò che il Sorvegliante avrebbe detto se mai fosse ricomparso. E se Egli ora mi disprezzasse al punto di non tornare mai più? O, peggio ancora, se tornasse per punirmi come si fa con un servitore svogliato? O mi dichiarasse indegno della sua fiducia e mi proibisse di toccare le mie schiave? Come potrei vivere se non al Suo servizio? A che altro potrebbe servire la mia vita?

E poi di nuovo la rabbia, una rabbia terribile e blasfema che lo faceva gridare a gran voce in cuor suo: o mio Sorvegliante! Perché hai consentito che accadesse tutto questo? Perché non l’hai fermato con un solo gesto del tuo braccio, se sei veramente il mio Signore?

E poi il terrore: quale bassezza, dubitare della potenza del Sorvegliante! No, perdonami, io sono il Tuo schiavo, o Padrone! Perdonami, ho perso tutto, perdonami!

Povero Cavil. Avrebbe ben presto scoperto che cosa significava perdere veramente tutto.

Giunto a casa, diresse il cavallo sul lungo viale che conduceva alla villa. Il sole picchiava forte, quindi Cavil si mantenne all’ombra delle querce che crescevano sul bordo del viale. Se fosse rimasto al centro, forse sarebbe stato visto qualche minuto prima. Forse non avrebbe udito un grido di donna all’interno della villa proprio nel momento in cui usciva dall’ombra degli alberi.

«Dolores!» chiamò. «C’è qualcosa che non va?»

Nessuna risposta.

Allora Cavil si spaventò. Quel silenzio gli fece accorrere alla mente immagini di ladri, razziatori e simile gentaglia che gli entravano in casa a forza approfittando della sua assenza. Forse avevano già ucciso Lashman, e in quel momento stavano sgozzando sua moglie. Spronò il cavallo, e fece al galoppo il giro della casa fino a giungere sul retro.

Appena in tempo per scorgere un Nero corpulento che scappava a gambe levate dalla porta posteriore verso gli alloggi degli schiavi. Non riuscì a vedere il suo viso per via dei pantaloni, che in quel momento l’uomo non indossava, come non indossava nessun altro capo d’abbigliamento… No, i pantaloni li teneva davanti a sé come una bandiera che gli sventolava in faccia mentre correva verso le baracche.