«Maestà», pregò Rhys, «abbiamo rischiato la vita per voi. Adesso è ora che voi rischiate qualcosa per noi».
La pioggia scendeva con piccoli tonfi discontinui tutto attorno a lui. Il vento sospirò e rinunciò. Le nubi presero a ritirarsi.
«Molto bene, maestà», disse Rhys. Si strappò via dalla cintola la bisaccia. «Perdonatemi per quello che sto per fare, ma non mi lasciate altra scelta.»
Afferrando la bisaccia con la mano buona, Rhys si guardò attorno, orientandosi, valutando le distanze. Questa sarebbe stata la sua ultima mossa, avrebbe consumato tutte le forze che gli rimanevano. Si lanciò nel suo scatto finale.
I cieli si aprirono. La pioggia cadde pesante, martellandolo. Rhys ignorò l’avvertimento della dea. Poteva dare in escandescenze, esplodere e minacciare quanto voleva. Non avrebbe osato fargli niente di drastico, perché lui poteva davvero avere in proprio possesso suo figlio.
Zeboim provò a farlo incespicare. Rhys si tirò su e riprese a correre. La dea gli scagliò chicchi di grandine in faccia. Lui tirò su il braccio per proteggersi gli occhi e proseguì.
Krell gli andava dietro a passi pesanti. I passi del cavaliere della morte facevano tremare il terreno.
Rhys scivolava e incespicava, le forze gli venivano meno. Non aveva molta strada da percorrere, però. La piazza d’armi terminava su un’accozzaglia di rocce, e al di là vi era il mare.
Krell vide il pericolo e accelerò il passo.
«Fermatelo, Zeboim», gridò irosamente Krell. «Altrimenti ve ne pentirete!»
Rhys si infilò nel pettorale della veste la bisaccia contenente il kender e il pezzo del khas e si arrampicò sulle rocce frastagliate che erano bagnate e scivolose per la pioggia. Scivolò, dovette usare entrambe le mani per rimanere in equilibrio, e singhiozzò per il dolore provocato dalle dita spezzate.
Udiva dietro di sé il respiro sibilante di Krell e ne percepiva la furia. Rhys continuò ad avanzare.
Le sue forze erano ormai esaurite quando raggiunse il margine dell’isola. A quel punto non ne aveva più bisogno, comunque. Aveva soltanto un ultimo passo da compiere e questo non gli avrebbe richiesto molta energia.
Rhys guardò giù. Si trovava in cima a un dirupo scosceso. Sotto di lui, molto più sotto di lui, il mare si sollevava e si gonfiava e si schiantava sulla parete rocciosa. L’ira e la paura della dea illuminavano la notte fino a renderla chiara quanto il giorno. Rhys notò piccoli dettagli: la spuma turbinante, la distesa verde di alghe trascinata via da uno scoglio luccicante, a galleggiare sulla superficie come i capelli di un annegato.
Rhys guardò lontano oltre il mare verso l’orizzonte, avvolto nella foschia e nella pioggia battente.
Krell aveva raggiunto le rocce e le risaliva annaspando, imprecando e maledicendo e agitando la spada.
Muovendosi attentamente in modo da non scivolare, Rhys si arrampicò su una sporgenza che si protendeva sul mare. Rimase sospeso, con l’animo calmo.
«Tieni duro, Nightshade», disse Rhys. «Sarà un po’ burrascoso.»
«Rhys!» piagnucolò il kender, terrorizzato. «Che stai facendo? Non vedo niente!»
«Meglio così.»
Rhys sollevò il viso verso il cielo.
«Zeboim, siamo nelle vostre mani.»
Stava in piedi come sulla verde collina, con le pecore distribuite su di essa in un ammasso bianco, Atta in posizione al suo fianco, a guardarlo in faccia, dimenando la coda, in impaziente attesa del comando.
«Atta, via», disse Rhys, e saltò.
11
La notte filtrava dalle profondità del Mare di Sangue, diffondendosi a macchia d’inchiostro nell’acqua, spingendosi delicatamente verso la superficie. Mina alzò lo sguardo, osservando l’ultimo vestigio della tremolante luce solare luccicare sulla superficie dell’acqua. Quindi la luce scomparve, e Mina rimase nell’oscurità assoluta.
Durante le ore che avevano trascorso in attesa, osservando la torre nel Mare di Sangue, Mina e Chemosh non avevano visto nessuno entrarvi, nessuno uscirvi. Le creature marine passavano accanto alle pareti di cristallo con la stessa indifferenza con cui passavano accanto alla barriera corallina o allo scafo di una nave naufragata adagiata sul fondo del mare. I pesci sfioravano le pareti, percorrendo in su e in giù la superficie liscia, trovando da mangiare o affascinati dal loro stesso riflesso. Nessuno sembrava avere paura della Torre, anche se Mina notò che le creature marine evitavano quello strano cerchietto in oro giallo-rosso e argento sulla sommità. Nessuno si avvicinava al buco nero centrale.
All’arrivo della notte sotto le onde, Chemosh rimase a guardare per vedere se nella Torre comparissero delle luci.
«Nella Torre di Istar vi erano finestre», rammentò, «anche se di giorno non si vedevano. Non si vedeva altro che le pareti di cristallo lisce e perpendicolari. Quando calava la notte, però, i maghi nelle loro stanze accendevano le lampade. La Torre luccicava di puntini di fuoco. La gente di Istar diceva che i maghi avevano catturato le stelle e le avevano portate in città a loro regale gloria».
«La Torre deve essere deserta, mio signore», suggerì Mina. Annaspò nel buio cercando la mano di lui, lieta di percepire il suo contatto, di udire il suono della voce di Chemosh. L’oscurità era assoluta al punto che Mina incominciava a dubitare della propria realtà. Doveva sapere che il dio era con lei. «Non sembra esservi nulla di sinistro. I pesci ci vanno proprio vicino.»
«I pesci non sono noti per la loro intelligenza, qualunque cosa in contrario dica Habbakuk. Comunque, come dici tu, non abbiamo visto nessuno avvicinarsi a questo luogo. Andiamo a indagare.» Svincolò la mano dalla stretta di Mina e si allontanò.
«Mio signore», chiamò Mina, allungando la mano verso di lui. «I miei occhi di mortale sono ciechi in questo buio. Non vi vedo. Non vedo neanche me stessa! Più di preciso, non vedo dove sto andando. Potete in qualche modo rischiararmi il cammino?»
«Chi vede può anche essere visto», disse Chemosh. «Io preferisco rimanere avvolto nell’oscurità.»
«Allora dovete guidarmi, mio signore, come il cane guida un mendicante cieco.»
Chemosh la prese per mano e la trainò rapidamente nell’acqua, senza alcuna differenza tra questa e l’aria. L’acqua scorreva oltrepassando Mina, fluendole sul corpo. A un certo punto, dei tentacoli le sfiorarono il braccio e lei si ritrasse di scatto. La creatura provvista di tentacoli non la inseguì. Forse Mina aveva un cattivo sapore. Se Chemosh notò la creatura, non le prestò attenzione. Continuò ad avanzare, ansioso e impaziente.
Mentre si avvicinavano alla Torre, Mina si rese conto che le pareti brillavano di una debole fosforescenza, di colore azzurro-verdastro. Quella luce misteriosa ricopriva le pareti di cristallo, conferendo alla Torre un’aria spettrale.
«Aspettami qui», disse Chemosh, lasciando andare la mano di Mina.
Mina galleggiò nel buio, osservò il dio avvicinarsi alla Torre. Chemosh passò le mani sulla superficie liscia delle pareti e scrutò attraverso quei muri di cristallo, cercando di vedere dentro.
Il cristallo rifletteva verso di lui la sua stessa immagine.
Chemosh allungò il collo. Guardò in su e in giù e tutto attorno. Scrollò il capo, profondamente perplesso.
«Non ci sono finestre», disse a Mina. «Né porte. Nessun modo per entrare, che io veda, eppure deve esserci. L’ingresso è nascosto, ecco tutto.»
Si spostò lungo le pareti, cercando con le mani oltre che con gli occhi. Mina vedeva la silhouette di Chemosh, nera contro il bagliore fosforescente verde. Lo seguì con lo sguardo fintanto che poté, poi lui scomparve, superando un angolo dell’edificio.
Mina rimase sola, completamente sola, come si trovasse sull’orlo del Caos.
Era arsa dalla sete e affamata. La fame poteva sopportarla; era rimasta senza mangiare durante molte lunghe marce con il suo esercito. La sete era un’altra questione. Si domandò come potesse avere sete, se aveva la bocca piena d’acqua, anche se l’acqua sapeva di sale e il sale le accresceva la sete. Non sapeva quanto a lungo sarebbe potuta sopravvivere senza bere, prima che il bisogno di acqua diventasse critico e lei dovesse confessare a Chemosh di non essere più in grado di proseguire. Avrebbe dovuto rammentargli ancora una volta che lei era una mortale.