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Con la sommità della testa emerse alla superficie dell’acqua. Mina sentiva l’aria sul cuoio capelluto. Presto sarebbe stata esposta all’aria.

«Chemosh», pregò rapidamente, mentre il livello dell’acqua continuava a calare, «se non venite da me subito, io morirò, perché mi stanno togliendo l’acqua che mi serve per respirare».

Silenzio. Se il dio l’aveva udita, non rispose.

Il livello dell’acqua le scese alle spalle. Mina non osava inspirare. Tenne l’acqua nei polmoni quanto più a lungo poté, finché i polmoni le bruciarono e le dolsero. Quando il dolore si fece troppo intenso, aprì la bocca. L’acqua le sgorgò fuori scendendole sul mento. Mina cercò di respirare, ma era come un pesce fuor d’acqua. Ansimò disperatamente, con la bocca che le si apriva e le si chiudeva.

«Chemosh», disse, mentre la luce incominciava a svanire, «vengo a voi. Non ho paura. Abbraccio la morte. Perché adesso non sarò più una mortale...».

La rete e la sua preda caddero a terra. Impazienti, i due maghi girarono la maniglia della porta della cassa d’aria e corsero dentro, con l’orlo delle loro vesti nere a sguazzare nell’acqua alta fino alle caviglie. I due si chinarono per guardare meglio la loro preda.

La donna era distesa sul dorso, avvolta nella rete, con gli occhi spalancati, la bocca ansimante, le labbra blu. Le mani e i piedi le si contorcevano spasmodicamente.

«Avevi ragione tu», disse un mago all’altro, con un tono di interesse accademico. «Sta annegando nell’aria.»

12

Scivolando attraverso le pareti cristalline della Torre, Chemosh si ritrovò in una stanza predisposta per essere usata come biblioteca in qualche momento futuro. La stanza era in disordine, ma gli scaffali che fiancheggiavano le pareti erano indubbiamente fatti per contenere libri. Al centro della stanza vi erano custodie vuote per rotoli, insieme a diversi scrittoi, un assortimento di sgabelli di legno e numerose poltrone di pelle dallo schienale alto, tutto ammassato assieme. Sugli scaffali vi erano alcuni libri, ma questi per lo più rimanevano dentro scatoloni e casse di legno.

«Mi sembra di essere arrivato nel giorno del trasloco», commentò Chemosh.

Andando a uno scaffale, raccolse uno dei volumi polverosi che si era rovesciato su un lato. Il libro era rilegato in pelle nera senza scritte sulla copertina. Una serie di geroglifici incisi sul dorso recava il titolo del libro, o per lo meno così immaginò Chemosh. Lui non sapeva leggerli, non gli interessava leggerli. Li riconobbe per ciò che erano: parole della lingua della magia.

«Allora...» mormorò. «Come sospettavo.»

Lasciando cadere a terra il libro, si guardò attorno alla ricerca di qualcosa con cui pulirsi le mani.

Chemosh continuò a rovistare qua e là, sbirciando nelle casse, sollevando il coperchio degli scatoloni. Non trovò niente di interessante per lui, però, e uscì dalla biblioteca attraverso una porta all’estremità opposta. Entrò in uno stretto corridoio che curvava verso destra e verso sinistra. Guardò da una parte e poi dall’altra, non vide nulla che gli stimolasse la curiosità. Si incamminò verso destra, dando un’occhiata dentro le porte aperte mentre procedeva. Trovò stanze vuote, destinate a diventare alloggi o aule scolastiche. Di nuovo, nulla di interessante, a meno che non si considerasse interessante il fatto che qualcuno si preparasse ad accogliere una folla.

Chemosh non aveva mai prima d’ora percorso i corridoi di una delle Torri dell’Alta Magia. Dominio degli dèi della magia, le Torri sono sede dei maghi e dei loro laboratori, dei loro libri di incantesimi e dei loro oggetti magici, tutti gelosamente custoditi, il cui accesso è vietato a tutti gli estranei. Compresi gli dèi.

Specialmente gli dèi.

Prima dell’ascesa di Istar, Chemosh non aveva mai provato alcuna inclinazione a entrare in una delle Torri. Che i maghi si tenessero i loro piccoli segreti. Fintanto che loro non interferivano con i suoi chierici, i suoi chierici non interferivano con i maghi. Poi venne il Re-Sacerdote e all’improvviso il mondo, come pure il cielo, cambiò.

Quando il Re-Sacerdote fece uscire dai gangheri i maghi di Istar e poi riempì la Torre di oggetti sacri, sottratti alle rovine di templi demoliti, gli dèi si infuriarono. Diversi fra i più militanti, compreso Chemosh, proposero di assalire la Torre di Istar e asportare con la forza gli oggetti magici. La proposta fu discussa in cielo e alla fine scartata; l’idea era che in questo modo avrebbero sottratto il libero arbitrio agli esseri da loro creati. L’umanità doveva risolvere i problemi dell’umanità. Gli dèi non sarebbero intervenuti, a meno che non avessero visto chiaramente minacciate le fondamenta stesse dell’universo. Chemosh voleva che gli fossero restituiti i suoi oggetti magici, ma voleva ancor più l’annientamento del Re-Sacerdote e di Istar, per cui si adeguò agli altri. Convenne di aspettare e restare a vedere.

L’umanità fece fiasco. Collaborò col Re-Sacerdote, lo appoggiò. L’universo ebbe un sobbalzo pericoloso. Gli dèi dovevano agire.

Fecero piovere sul mondo la distruzione. I chierici scomparvero. Ebbe inizio l’Era della Disperazione. Gli dèi si tennero da parte, rimasero a distanza, in attesa che la popolazione tornasse da loro. Chemosh avrebbe potuto mettere al sicuro i propri oggetti magici allora, ma era immerso fino al collo in un complotto oscuro e segreto, volto a riportare nel mondo la Regina Takhisis. Non osò fare nulla che potesse attirare l’attenzione sulla loro trama. Quando ebbe inizio la Guerra delle Lance e gli altri dèi furono occupati, Chemosh entrò nel Mare di Sangue per cercare la Torre. Non c’era più, sepolta in profondità sotto le sabbie mobili del fondo marino.

Ora la Torre era stata ricostruita e lui non aveva dubbi che i suoi oggetti magici e quelli degli altri dèi dovessero trovarsi da qualche parte all’interno. Non erano stati distrutti. Chemosh percepiva la propria potenza promanare da quelli che lui aveva benedetto e in alcuni casi forgiato. La sua essenza era piuttosto lieve, non abbastanza intensa da aiutarlo a localizzare le sue reliquie sacre, ma c’era: un alito di morte fra le rose.

Chemosh con irritazione si strofinò via una chiazza di polvere dalla manica della casacca. Stava riflettendo sul da farsi, chiedendosi se valesse la pena di avviare una perlustrazione.

Una voce tranquilla, bassa ma carica di minaccia e malvagità, ruppe il silenzio: «Che cosa stai facendo nella mia Torre, Signore della Morte?».

Una testa gibbosa, pallida come un cadavere, era sospesa incorporea nell’oscurità. Gli occhi senza palpebre erano più scuri del buio; le labbra grosse e piene si spingevano in dentro e in fuori.

«Nuitari», disse Chemosh. «Immaginavo di poterti trovare a gironzolare qui da qualche parte. Non ti ho visto molto, ultimamente. Adesso capisco perché. Eri occupato.»

Nuitari scivolò silenziosamente in avanti. Le sue mani pallide scivolarono fuori dalle pieghe delle maniche della sua veste di velluto nero. Le dita lunghe e delicate erano in movimento costante, arricciandosi come per afferrare, simili ai tentacoli di una medusa.

«Ti ho fatto una domanda: che cosa stai facendo qui, Signore della Morte?» ripeté Nuitari.

«Facevo una passeggiata...»

«Sul fondo del Mare di Sangue?»

«... e per caso sono passato di qui. Non ho potuto fare a meno di notare le migliorie che hai apportato a questa zona.» Chemosh si guardò languidamente attorno. «Bel posticino hai qui. Ti dispiace se do un’occhiata in giro?»

«Sì, mi dispiace», rispose Nuitari. Gli occhi privi di palpebre non sbattevano mai. «Credo che faresti meglio ad andartene.»

«Me ne andrò», disse Chemosh, compiacente, «non appena mi avrai restituito i miei oggetti magici».

«Non ho idea di che cosa tu stia parlando.»

«Allora lascia che ti rinfreschi la memoria. Io sono qui per recuperare gli oggetti magici che mi sono stati rubati dal Re-Sacerdote e nascosti in questa Torre.»

«Ah, quegli oggetti. Temo che dovrai tornartene a casa a mani vuote. Purtroppo sono stati tutti distrutti, ridotti in cenere nell’incendio che ha distrutto la Torre.»