«Era ora che rinvenissi», disse Zeboim, continuando a strattonarlo e a pomparlo.
Gemendo, Rhys riuscì a gracchiare: «Basta! Per favore!». Rigurgitò dell’altra acqua.
La dea lo mollò, lasciandogli cadere le braccia flosce sulla sabbia.
A Rhys bruciavano gli occhi per il sale. Riusciva a malapena ad aprirli. Sbirciò da sotto le palpebre semichiuse vedendo accanto alla propria testa l’orlo di una lunga veste verde incresparsi sulla sabbia. Il dito di un piede nudo e tornito lo pungolò.
«Dov’è lui, monaco?» domandò Zeboim.
La dea si inginocchiò accanto a lui. I suoi occhi verde-azzurro ardevano. Un vento incessante le agitava i capelli di spuma di mare. La dea afferrò Rhys per i capelli, gli strattonò la testa sollevandogliela da terra e lo guardò furiosa negli occhi.
«Dov’è mio figlio?»
Rhys cercò di parlare. Aveva la gola dolorante e riarsa. Si passò la lingua sulle labbra ricoperte di sale e disse con voce stridula: «Acqua!».
«Acqua!» si infiammò Zeboim. «Ti sei inghiottito metà del mio mare! Oh, benissimo», soggiunse stizzita, mentre Rhys chiudeva gli occhi e ricadeva floscio sulla sabbia. «Ecco. Non berne troppa, se no vomiti di nuovo. Sciacquati la bocca e basta.»
Con la mano lo sostenne mentre gli accostava alle labbra una coppa di acqua fresca. La dea sapeva avere un tocco delicato quando voleva. Rhys sorseggiò grato quel liquido fresco. La dea gli passò la punta delle dita umide sulle labbra e sulle palpebre, tirandogli via il sale.
«Ecco», disse con tono calmante Zeboim. «Hai avuto la tua acqua.» La voce le si indurì. «Adesso smettila di cincischiare. Voglio mio figlio.»
Mentre faceva per infilare una mano nel petto sotto la veste dove aveva sistemato la bisaccia di cuoio, Rhys fu percorso da una fitta di dolore e rimase senza fiato. Sollevò le mani. Aveva le dita violacee e gonfie e piegate a strane angolazioni. Non riusciva a muoverle.
Zeboim lo guardò tirando su col naso.
«Io non sono la dea della guarigione, se è questo che pensi!» disse freddamente.
«Non vi ho chiesto di guarirmi, vostra maestà», ribatté Rhys a denti stretti.
Lentamente si infilò una mano ferita dentro la veste e sospirò di sollievo nel percepire al tatto il cuoio umido. Aveva temuto di avere perso la bisaccia durante il tuffo giù dal dirupo. Armeggiò con la borsa, ma le dita spezzate non funzionavano abbastanza bene da consentirgli di aprirla.
La dea gli prese le mani e, un dito dopo l’altro, gli strattonò le ossa rimettendogliele a posto. Il dolore era lancinante. Rhys per un attimo temette di perdere i sensi. Quando la dea ebbe finito, però, le ossa spezzate si erano riaggiustate. I lividi scomparvero. Il gonfiore prese a recedere. Zeboim aveva il suo tocco guaritore, a quanto pareva.
Rhys rimase disteso sulla sabbia, bagnato di sudore, ad attendere che gli passasse la nausea.
«Ti avevo avvertito», disse serenamente Zeboim. «Io non sono Mishakal.»
«No, maestà», mormorò Rhys. «Grazie lo stesso.»
Infilò le mani guarite dentro la veste e ne estrasse la borsa di cuoio. Aprendone il cordone di chiusura, rovesciò la bisaccia. Caddero fuori sulla sabbia due pezzi del khas: un cavaliere nero in groppa a un drago azzurro e un kender.
Zeboim afferrò il cavaliere nero. Tenendolo in mano, accarezzò amorevolmente la figura e le parlò cantilenando. «Figlio mio! Figlio mio carissimo! La tua anima sarà liberata. Andremo subito da Chemosh.»
Vi fu una pausa, come se la dea stesse ascoltando, poi Zeboim disse, con voce alterata: «Non discutere con me, Ariakan. La mamma sa che cosa è meglio!».
Cullando tra le mani il pezzo del khas, Zeboim si alzò. Le nubi temporalesche oscurarono il cielo. Il vento si levò, soffiando sabbia pungente negli occhi di Rhys.
«Non andatevene ancora, maestà!» gridò disperatamente. «Togliete l’incantesimo al kender!»
«Quale kender?» domandò noncurante Zeboim. Sbuffi di nuvole si avvolsero a spirale attorno a lei, pronti a condurla via.
Rhys balzò in piedi. Afferrò il pezzo a forma di kender e lo tenne davanti alla dea.
«Il kender ha rischiato la vita per voi», disse Rhys, «come ho fatto io. Ponetevi questa domanda, maestà: perché Chemosh dovrebbe liberare l’anima di vostro figlio?».
«Perché? Perché io lo ordino, ecco perché!» ribatté Zeboim, seppure non col suo spirito consueto. Appariva incerta.
«Chemosh ha fatto tutto questo per un motivo, maestà», disse Rhys. «Lo ha fatto perché vi teme.»
«Certo che sì», ribatté Zeboim, alzando le spalle. «Tutti mi temono.»
Esitò e poi disse: «Ma non mi dispiace sentire quello che tu hai da dire in proposito. Perché pensi che Chemosh mi tema?».
«Perché siete venuta a sapere troppe cose riguardo ai Prediletti, quei terribili morti viventi che lui ha creato. Siete venuta a sapere troppe cose riguardo a quella donna, Mina, che li comanda.»
«Hai ragione. Quella ragazzetta, Mina. Mi ero completamente dimenticata di lei.» Zeboim rivolse a Rhys un’occhiata di riluttante riconoscenza. «Hai anche ragione sul fatto che il Signore della Morte non libererà l’anima di mio figlio, non certo senza costrizione. Mi serve qualcosa per forzargli la mano. Mi serve Mina. Tu devi trovarla e portarla da me. Il compito, ti ricordo, che ti avevo assegnato inizialmente.»
Zeboim lo guardò con occhio torvo. «Allora perché non l’hai eseguito?»
«Stavo salvando vostro figlio, maestà», disse Rhys. «Riprenderò le ricerche, ma per trovare Mina necessito dei servigi del kender...»
«Quale kender?»
«Questo kender. Nightshade, maestà», disse Rhys, sollevando il pezzo del khas che agitava freneticamente le minuscole braccia. «Il kender "nightstalker".»
«Oh, benissimo!» Zeboim gettò sabbia sul pezzo del khas, e Nightshade, in tutti i suoi 135 centimetri, sbocciò a fianco di Rhys.
«Riportami alla normalità!» stava gridando il kender.
Si guardò attorno e sbatté gli occhi. «Oh, ce l’hai fatta! Fiuuu! Grazie!»
Nightshade si diede dei colpetti dappertutto. Si portò la mano alla testa per accertarsi che il ciuffo ci fosse ancora, ed era così. Si guardò la camicia per accertarsi di averla ancora ed era così. Aveva anche i calzoni alla zuava, del suo colore preferito, viola, o per lo meno erano stati un tempo viola. Adesso avevano uno strano color malva. Strizzò l’acqua da camicia, calzoni e ciuffo, e si sentì meglio.
«Non mi lamenterò mai più di essere basso di statura», confidò a Rhys con tono accorato.
«Se è tutto quello che posso fare per voi due», disse caustica Zeboim, «ho degli affari urgenti...».
«Ancora una cosa, maestà», disse Rhys. «Dove siamo?»
Zeboim diede un’occhiata assente attorno. «Siete su una spiaggia sul mare. Come potrei sapere dove? Per me è tutto uguale. Io non presto attenzione a queste cose.»
«Noi dobbiamo tornare a Solace, maestà», disse Rhys, «per cercare Mina. Lo so che avete fretta, ma se poteste soltanto condurci là...».
«E vorreste che vi riempissi le tasche di smeraldi?» domandò Zeboim arricciando le labbra con sarcasmo. «E donarvi un castello prospiciente le coste del Mare di Sirrion?»
«Sì!» gridò con entusiasmo Nightshade.
«No, maestà», disse Rhys. «Ci basta che ci riportiate a...»
Si interruppe perché non vi era più alcuna dea ad ascoltarlo. Vi erano soltanto Nightshade, diverse persone dall’aria estremamente sbalordita e un poderoso albero di vallen che sui rami robusti reggeva un edificio col tetto a due spioventi.
Squarciò l’aria un abbaiare gioioso. Un cane bianco e nero si slanciò dal pianerottolo sui cui stava sonnecchiando al sole. Il cane scese ruzzolando dalle scale, scansando le gambe della gente, quasi mandando a gambe all’aria più di qualcuno.
Sfrecciando sul prato, Atta si lanciò verso Rhys e gli balzò fra le braccia.
Rhys afferrò quel corpo peloso che si dimenava e lo strinse a sé, seppellendo la testa nella pelliccia, con gli occhi umidi di acqua più dolce di quella del mare.
Le finestre con le vetrate dai colori vivaci coglievano gli ultimi raggi del sole pomeridiano. La gente si faceva strada per salire e scendere dalla lunga scalinata che conduceva da terra alla Taverna dell’Ultima Dimora sulla cima dell’albero.