Voleva farsi carina per lui, e fu allora che vide un filo di perle nere steso sul comodino. Pensando al suo signore, Mina prese in mano le perle. Udì invece la voce di Zeboim e trovò la dea in piedi alle sue spalle.
«Quella collana è incantata», disse la dea del mare. «Ti porterà ciò che desidera il tuo cuore.»
Mina era turbata. «Maestà, grazie, ma io ho tutto ciò che desidero. Non c’è niente che io voglia...»
Si interruppe a metà frase. Si era appena ricordata che desiderava qualcosa. Che desiderava moltissimo.
«Le perle ti condurranno a una grotta. Dentro vi troverai ciò che brami. Non c’è bisogno di ringraziare, bambina», disse la dea del mare. «Io mi delizio nel rendere felici i mortali.»
Zeboim armeggiò con le perle, le dispose nel modo più consono sul collo snello di Mina.
«Ricorda chi ha fatto questo per te, bambina», le disse Zeboim mentre scompariva, lasciandosi dietro un odore persistente di tonificante aria di mare.
Chemosh entrò nella stanza e trovò Mina intenta a spazzolarsi i capelli.
«Che...» La fissò. «Dove hai preso quella collana?»
«Me l’ha regalata Zeboim, mio signore», disse Mina. Mantenne lo sguardo sul proprio riflesso mentre continuava a spazzolarsi i capelli. «Non avevo mai visto prima d’ora delle perle nere. Brillano con una radiosità graziosa e strana, vero? Come un arcobaleno scuro. A me sembrano bellissime.»
«A me sembra che assomiglino a cacche di coniglio su uno spago», disse freddamente Chemosh. «Toglitele.»
«Credo che siate geloso, mio signore», disse Mina.
«Ho detto toglitele», ordinò Chemosh.
Mina sospirò, sollevando riluttante le mani verso il fermaglio. Vi armeggiò sopra, incapace di aprirlo. «Mio signore, se poteste aiutarmi...»
Chemosh era pronto a strapparle le perle dal collo... Poi si bloccò.
Da quando in qua la Strega del Mare offre doni ai mortali? si domandò. Da quando in qua quella vacca egoista fa regali a qualcuno, se è per questo? Perché mai Zeboim dovrebbe offrire delle perle a Mina? Qui c’è sotto qualcosa. Complottano contro di me. Faccio male a obiettare. Devo sembrare stupido come loro evidentemente pensano che io sia.
Chemosh sollevò i capelli rigogliosi di Mina e li scostò di lato. Con la punta delle dita sfiorò le perle.
«C’è magia qui», disse con tono accusatorio. «Magia divina.»
Il riflesso di Mina guardò verso di lui. Gli occhi d’ambra tremolavano di lacrime non versate. «Le perle sono effettivamente incantate, mio signore. Zeboim mi ha detto che mi avrebbero portato ciò che desidera il mio cuore.»
Mina gli prese la mano, vi premette sopra le labbra. «Lo so che ho perso la vostra considerazione. Farei qualunque cosa per innalzarmi di nuovo nella vostra stima. Qualunque cosa per recuperare quella felicità che condividevamo. Siete voi ciò che desidera il mio cuore, mio signore. Le perle sono fatte per compiacervi, per riportarvi da me!»
Era così amorevole, così contrita! Chemosh quasi riuscì a credere che lei dicesse la verità.
Quasi.
«Tieni quelle perle», disse magnanimo Chemosh. Le prese la spazzola e la mise da parte. La strinse nell’abbraccio. «La collana è bellissima, ma non tanto bella quanto te, mia cara.»
La baciò, e lei cedette al contatto con lui, e Chemosh si abbandonò al piacere.
Poteva permettersi di divertirsi con lei.
Ausric Krell osservava nell’ombra.
2
Mina dormì a sprazzi, entrando e uscendo dai sogni. Si svegliò e si trovò sola nel letto. Chemosh se n’era andato in un certo momento della notte; lei non sapeva bene quando.
Incapace di riprendere sonno, Mina osservò l’ombra pallida e grigia del mattino penetrare furtivamente dalla finestra e pensò a Zeboim e al dono della dea. Ciò che desiderava il suo cuore.
Non aveva mentito al suo dio. Chemosh era davvero ciò che desiderava il suo cuore, ma c’era qualcos’altro che lei desiderava altrettanto intensamente quanto l’amore di lui. Qualcosa di cui aveva bisogno, forse più che dell’amore di lui.
Gettò via le coperte e si alzò dal letto. Si tolse la camicia da notte di seta e indossò un abito dritto e sciolto di lino, molto semplice, che aveva trovato negli appartamenti abbandonati della servitù, e si mise un paio di scarpe morbide di cuoio. Sperava di sgattaiolare fuori del castello senza attirare l’attenzione di Chemosh. Se si fosse imbattuta in lui, aveva la scusa pronta. Non le piaceva mentire al suo signore, però, e sperava di riuscire a evitarlo e di evitare anche i Prediletti che, se l’avessero vista, avrebbero ripreso le loro suppliche e i loro gemiti chiassosi.
Si avvolse in uno scialle spesso e caldo e se lo tirò sopra la testa. Uscendo dalla camera da letto, Mina attraversò a passi felpati i corridoi ancora bui.
Rifletté sulle proprie menzogne al suo signore. Aveva detto la verità a Chemosh quando gli aveva detto che l’amava e che avrebbe fatto qualunque cosa per riguadagnare il suo favore. Lo amava davvero, più della propria vita. Perché mentirgli su questo? Perché non dirgli la verità?
Perché un dio non avrebbe capito.
Mina non era sicura di capire del tutto neanche lei. Goldmoon le aveva detto ripetutamente che non aveva importanza chi fossero stati i suoi genitori. Il passato era passato. Era importante il qui e ora della sua vita. Se suo padre fosse stato un pescivendolo e sua madre la moglie di un pescivendolo, avrebbe fatto qualche differenza?
«Ma se», aveva argomentato la piccola Mina, «mio padre era un re e mia madre una regina? E se io una principessa? Non farebbe qualche differenza?».
Goldmoon aveva sorriso e le aveva detto: «Io ero una principessa, Mina, e pensavo proprio che facesse qualche differenza. Ho scoperto, quando ho aperto il mio cuore a Mishakal, che simili titoli sono privi di senso. Ciò che importa veramente è quello che siamo agli occhi degli dèi. O meglio, ciò che siamo nel nostro cuore», aveva soggiunto Goldmoon con un sospiro, poiché allora gli dèi se n’erano andati da tempo.
Mina aveva cercato di capire e aveva provato a togliersi dalla testa ogni pensiero sui propri genitori, e per un certo tempo ci era riuscita. Naturalmente aveva domandato all’Unico Dio, ma Takhisis aveva dato a Mina più o meno la stessa risposta di Goldmoon, solo non così gentilmente. L’Unico Dio aveva considerato quel desiderio di Mina una debolezza, un cancro che l’avrebbe divorata se non fosse stato rapidamente e brutalmente asportato.
Forse era il ricordo terribile della punizione di Takhisis a rendere Mina riluttante a parlarne con Chemosh. Lui era un dio. Non poteva proprio capire. Il segreto di Mina era ben piccolo. Era innocuo. Mina gli avrebbe raccontato tutto quando avesse saputo la verità. Allora, insieme, avrebbero potuto ridere del fatto che lei fosse figlia di un pescivendolo.
Badando a scegliere scale nascoste e passaggi in rovina, Mina arrivò in quella che un tempo era stata la cucina e da lì passò a una dispensa, dove gli antichi proprietari del castello conservavano barili di birra, botti di vino, ceste di mele e patate, carne affumicata, sacchi di cipolle. Persistevano ancora i fantasmi di buoni odori, ma nel palazzo del Signore della Morte svolazzavano tanti fantasmi che Mina vi prestò scarsa attenzione. Aveva fame, ma non di cibo.
Mina non aveva idea di dove fosse Chemosh. Forse stava reclutando discepoli o giudicando anime o giocando a khas con Krell, oppure faceva tutte e tre le cose contemporaneamente. Lei avrebbe scommesso di sapere dove lui non era: in quel magazzino. L’improvvisa comparsa di Chemosh, pertanto, quando il dio le si piazzò davanti, fu per lei una sorpresa considerevole.
Si aspettava recriminazioni, accuse, invettive. Lui la guardò con moderato interesse, come si fossero incontrati a colazione, e le domandò: «Ti sei alzata presto, mia cara. Esci?».
«Pensavo di andare a fare una nuotata in mare, mio signore», rispose fiaccamente Mina, offrendo la scusa che aveva preparato.
Non poteva sapere, naturalmente, che questa era l’unica scusa che Chemosh avrebbe trovato particolarmente sospetta.