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Nightshade scrollò il capo. «Non senza di te. Useremo il grasso per liberarti le mani...»

«I ceppi sono stretti ai miei polsi e ancora più stretti alle caviglie. Non posso scappare. Tu e Atta sì.»

«Non farmi andar via!» supplicò Nightshade.

Rhys mise il braccio attorno alle spalle del kender. «Sei un amico buono e fedele, Nightshade, il migliore amico che io abbia mai conosciuto. La tua saggezza mi ha riportato al mio dio. Guardami.»

Nightshade scrollò il capo e fissò ostinatamente il terreno.

«Guardami», disse gentilmente Rhys.

Nightshade sollevò la testa. Le lacrime gli rigavano le guance.

«Io so sopportare il dolore», disse Rhys. «Io non ho paura della morte. Majere attende di accogliermi. Ciò che non posso sopportare è vedere soffrire voi due. La mia morte sarà tanto più facile se io so che tu e Atta siete in salvo. Farai quest’ultimo sacrificio per me, Nightshade?»

Nightshade dovette deglutire alcune volte, e poi disse miserevolmente: «Sì, Rhys».

Atta guardò il suo padrone. Era una buona cosa che non potesse capire ciò che stava dicendo. Avrebbe decisamente rifiutato.

«Così va bene», disse Rhys. «Adesso penso che dovremmo prenderci qualcosa da mangiare e da bere, e poi riposarci un po’.»

«Io non ho fame», mormorò Nightshade.

«Io sì», affermò Rhys. «E so che anche Atta ha fame.»

Al sentir parlare di mangiare, la cagna si leccò i baffi e si alzò, scodinzolando.

«Penso che abbia fame anche tu», soggiunse Rhys, sorridendo.

«Be’, giusto un po’», disse Nightshade e, con un sospiro mesto, fece scivolare le mani fuori dei ceppi e andò sferragliando verso il sacco di carne di maiale salata.

5

Il mare ribollì quando Zeboim entrò a grandi passi nell’acqua, e la dea era avviluppata dal vapore quando salì a bordo della nave dei minotauri. Il capitano si inchinò profondamente verso di lei, e l’equipaggio si toccò con le nocche la fronte ispida. «Dove siete diretta, o Gloriosa?» domandò umilmente il capitano.

«Al Tempio di Majere», rispose la dea.

Il capitano si strofinò il muso e la osservò con aria spiacente. «Temo di non sapere...»

Zeboim agitò la mano. «È da qualche parte su una montagna. Ho dimenticato il nome. Vi guiderò io. Affrettatevi.»

«Sì, o Gloriosa.» Il capitano si inchinò di nuovo e poi si mise a urlare ordini. L’equipaggio corse al sartiame.

Zeboim sollevò le mani e convocò il vento, e le vele si gonfiarono.

«A nord», disse la dea, e le onde si incresparono schiumando sotto la prua mentre il vento spingeva la nave sopra le onde e su verso le nuvole.

I venti della volontà della dea spinsero la nave attraverso l’etere che schiumava sotto la chiglia e la trasportarono in un luogo remoto che non compariva su nessuna carta geografica di Krynn, poiché pochi mortali l’avevano mai visto o erano al corrente della sua esistenza. Coloro che lo conoscevano non avevano bisogno di carte geografiche, poiché sapevano dove si trovavano.

Era un territorio di alte montagne e valli profonde. Su quei monti imponenti non cresceva nulla. Le valli erano sfregi intagliati nella pietra con qualche collinetta erbosa e di quando in quando un pino scabro o un abete piegato dal vento. I nomadi che dimoravano in questa regione desolata vagavano sulle montagne con i loro greggi di capre, conducendo una magra esistenza. Questi esseri umani vivevano adesso come vivevano secoli fa, senza sapere niente del mondo al di là e senza chiedere nulla a quel mondo tranne di essere lasciati in pace.

Avvicinandosi alla sua destinazione, la dea avvolse la nave nelle nubi, per timore che Majere, dio solitario e isolato, si accorgesse del suo arrivo e se ne andasse prima che lei potesse parlargli.

«Mia gentile signora, questa è follia» disse il minotauro-capitano. Diede un’occhiata stralunata oltre la prua. Dovunque le nubi si aprissero, vedeva la sua nave veleggiare pericolosamente vicino a vette frastagliate e innevate. «Ci schianteremo a capofitto contro una montagna e per noi sarà la fine!»

«Ancorate qui», ordinò Zeboim. «Siamo vicini alla mia destinazione. Compirò da sola il resto del viaggio.»

Il capitano fu fin troppo felice di obbedire. Arrestò la nave, lasciandola a librarsi fra le nuvole.

Avvolgendosi in una nebbiolina grigia che si gettò addosso come uno scialle di seta, Zeboim discese lungo il fianco della montagna, alla ricerca della dimora di Majere. Non tornava lì da eoni e aveva dimenticato dove si trovasse di preciso. Emergendo su un altopiano che si estendeva in mezzo a due vette, Zeboim pensò che quel luogo le paresse familiare e sollevò con le mani il velo di nebbia per sbirciare fuori. Sorrise con soddisfazione.

Sull’altopiano sorgeva una casa semplice, di antica costruzione, con linee sobrie ed eleganti. Oltre alla casa vi erano un cortile pavimentato e un giardino, il tutto circondato da un muro che era stato costruito pietra su pietra dalle mani del proprietario. Quelle stesse mani avevano costruito la casa e curavano anche il giardino.

«Oh dèi, diventerei matta come un pesce palla, bloccata qui tutta sola», mormorò Zeboim. «Nessuno che ti ascolti quando parli. Nessuno che obbedisca ai tuoi ordini. Nessuna vita di mortale da aggrovigliare e contorcere. Tuttavia... non è del tutto vero, no, amico mio?» Zeboim sorrise, con un sorriso crudele e sardonico. Quindi rabbrividì.

«Ascoltami. Sono qui da appena qualche minuto e già parlo da sola! Fra un attimo mi metterò a cantilenare e a saltellare qua e là, agitando le mani e suonando campanelline. Ah, eccoti qui.»

Trovò la sua preda da sola nel cortile, a eseguire quello che pareva qualche sorta di esercizio o forse una danza lenta e sinuosa. Malgrado il freddo che gelava le ossa e che faceva battere i denti alla dea del mare, Majere era a petto nudo e a piedi nudi e indossava soltanto dei pantaloni morbidi legati in vita da una cintura di stoffa. Aveva i capelli grigio-ferro legati in una treccia che gli scendeva alla vita. Aveva lo sguardo rivolto dentro di sé, corpo e mente una cosa sola, mentre si muoveva al ritmo della musica delle sfere.

Zeboim piombò su di lui come un cormorano in picchiata e atterrò nel cortile giusto davanti a lui.

Lui sapeva della presenza della dea. Zeboim lo capì dal lieve balenare degli occhi. Forse sapeva della sua presenza da tempo. Era difficile dirlo, perché il dio non diede segno di notare la sua presenza nemmeno quando lei pronunciò il suo nome.

«Majere», disse severamente la dea, «dobbiamo parlare».

Gli dèi non hanno forme corporee, e non ne hanno bisogno. Possono comunicare fra loro da mente a mente, i loro pensieri vagano per l’universo, non conoscendo limiti. Al pari dei mortali, però, gli dèi hanno segreti (pensieri che non vogliono comunicare, progetti e intrighi che non vogliono svelare), per cui trovano preferibile usare le loro incarnazioni non solo quando devono comunicare con i mortali, ma anche fra loro. Il dio permette soltanto a una parte di sé di entrare nell’incarnazione, tenendo così nascosta la propria mente.

L’incarnazione di Majere proseguì l’esercizio: le mani si muovevano aggraziate nell’aria rarefatta e frizzante; i piedi nudi si muovevano silenziosamente sulla pietra da lastrico. Zeboim fu costretta a danzare a sua volta (scansandosi per evitarlo, balzando di lato) mentre cercava di tenere il suo passo e rimanere in vista del suo viso.

«Presumo che tu non possa stare fermo per un attimo», disse alla fine, irritata. Aveva appena inciampato sull’orlo della propria veste.

Majere continuò a eseguire il suo rituale quotidiano. Il suo sguardo era rivolto alle montagne, non a lei.

«Sappiamo tutti e due perché io sono qui. Quel tuo monaco: il monaco che Mina sta per sbudellare, o scorticare, o qualunque divertimento progetti di procurarsi con lui.»

Majere si distolse da lei, con i lenti movimenti prescritti, ma non prima che Zeboim vedesse un lampo negli occhi grigi del dio.

«Ah, bene!» gridò Zeboim, sfrecciando dall’altra parte per guardarlo in faccia. «Mina. Questo nome ti è familiare, vero? Perché? Questo è il problema. Penso che tu sappia qualcosa di lei. Penso che tu sappia molto di lei.»