Nightshade si dimenò per mettersi in piedi. «Parto subito!»
«Devi portare con te Atta», disse Rhys. «Per protezione. Flotsam è una città senza legge, almeno così ho sentito dire.»
«Giusto! Andiamo, Atta!» Nightshade fischiò.
Atta si alzò in piedi ma non lo seguì. Guardò Rhys. Percepiva che qualcosa non andava bene.
«Atta, sorveglialo», disse Rhys puntando il dito contro il kender.
Spesso le aveva fatto «sorvegliare» qualcosa, e questo voleva dire che Atta doveva tenere d’occhio un oggetto, non lasciare avvicinarsi nessuno. La lasciava a sorvegliare le pecore ammalate mentre lui andava a cercare aiuto. Spesso le diceva di sorvegliare Nightshade.
In questo caso, però, Rhys non se ne andava. Rimaneva lì, e l’oggetto che Atta doveva sorvegliare se ne andava. Rhys non sapeva se la cagna avrebbe capito e obbedito. Era abituata a tenere d’occhio il kender, però, e Rhys sperava che sarebbe andata con lui adesso come aveva fatto in passato. Aveva pensato di provare a fabbricare un guinzaglio per lei, ma Atta non aveva mai saputo che cosa volesse dire essere legata. Rhys immaginava che la cagna si sarebbe ribellata al guinzaglio e lui non aveva tempo per questo. La notte stava calando rapidamente.
«Atta, qui.»
La cagna andò da lui. Rhys le mise le mani sulla testa e la guardò negli occhi marroni.
«Vai con Nightshade», disse. «Tienilo d’occhio. Sorveglialo.»
Rhys la avvicinò e la baciò delicatamente sulla fronte. Quindi la lasciò andare.
«Chiamala di nuovo.»
«Atta, vieni», disse Nightshade.
Atta guardò Rhys. Lui fece un gesto verso il kender.
«Vattene via adesso», ordinò Rhys a Nightshade. «Svelto.»
Nightshade obbedì, incamminandosi verso l’ingresso della grotta. Atta diede un’ultima occhiata a Rhys, quindi obbediente seguì il kender. Rhys emise un lieve sospiro.
Nightshade si fermò. «Torniamo presto, Rhys. Non... non andare da nessuna parte.»
«Stai tranquillo, amico mio», rispose Rhys. «Tu e Atta prendetevi cura l’uno dell’altra.»
«Certamente.» Nightshade esitò, quindi si girò e schizzò fuori della grotta. Atta corse dietro al kender, così come aveva fatto molte volte in precedenza.
Rhys si accasciò contro la parete di roccia. Gli vennero le lacrime agli occhi, ma lui sorrise tra le lacrime.
«Perdonatemi la bugia, Maestro», disse sottovoce.
In tutta la lunga storia dei monaci di Majere, non avevano mai costruito un tempio a Flotsam.
Chemosh era sempre nella Sala delle Anime di Passaggio e ci andava molto poco: una contraddizione che si può spiegare col fatto che uno degli aspetti del Signore della Morte era sempre presente nella Sala, seduto sul trono scuro, a passare in rassegna tutte quelle anime che avevano abbandonato la carne mortale e stavano per affrontare la fase successiva del viaggio eterno.
Chemosh ritornava raramente a questo suo aspetto. Questo luogo era troppo isolato, troppo lontano dal mondo degli dèi e degli uomini. Agli altri dèi era proibito venire nella Sala, affinché non esercitassero un’indebita influenza sulle anime sottoposte a giudizio.
Al Signore della Morte era concessa l’ultima possibilità di influenzare le anime per indurle a passare alla sua causa malvagia, di impedire loro di proseguire il viaggio, di catturarle e tenerle con sé. Le anime che avevano appreso le lezioni della vita riuscivano facilmente a evitare le sue insidie, così come ci riuscivano le anime innocenti, per esempio quelle dei bambini.
Uno degli dèi della luce o della neutralità poteva intercedere per conto di un’anima, ma solo impartendo una benedizione a quell’anima prima che entrasse nella Sala. Una di tali anime si trovava adesso davanti al trono di onice e argento: un’anima che era annerita eppure pervasa da una luce azzurra. L’uomo aveva commesso atti ripugnanti, eppure aveva sacrificato la propria vita per salvare dei bambini intrappolati in un incendio. Il viaggio della sua anima non sarebbe stato facile, poiché lui aveva ancora molto da imparare, ma Mishakal l’aveva benedetto, e lui riuscì a sfuggire alla mano ossuta del Signore della Morte che cercava di ghermirlo. Quando Chemosh intrappolava un’anima, la prendeva e la scaraventava nell’Abisso oppure la rispediva indietro ad abitare il corpo morto che adesso sarebbe diventato la sua terribile prigione.
Anche gli dèi delle tenebre potevano rivendicare anime. Le anime già promesse a Morgion o maledette da Zeboim entravano nella Sala avvolte in catene per essere consegnate dal Signore della Morte a quegli dèi che loro avevano giurato di servire.
Chemosh nel suo aspetto di «mortale» veniva nella Sala soltanto durante quei periodi in cui era profondamente turbato. Si divertiva a farsi rammentare il proprio potere. Qualunque dio avesse adorato in vita un mortale, quando quella vita si concludeva l’anima si presentava davanti a lui. Anche coloro che negavano l’esistenza degli dèi si ritrovavano qui: un brutto colpo per molti. Venivano giudicati in base a come avevano vissuto la propria vita, non al fatto che avessero o no professato una fede in un dio durante tale vita. Una strega che avesse aiutato gli altri per tutta la vita veniva fatta proseguire, mentre l’anima cupida e bramosa che aveva regolarmente imbrogliato i clienti senza però mai perdersi una cerimonia di preghiera cadeva vittima delle lusinghe del Signore della Morte e finiva nell’Abisso.
Alcune anime potevano andarsene ma sceglievano di non farlo. Una madre era riluttante ad abbandonare i figli piccoli; un marito non voleva lasciare la moglie. Queste rimanevano legate a coloro che amavano finché non si persuadevano che era giusto per loro proseguire, che i vivi dovevano andare avanti con la loro vita e anche i morti dovevano andare avanti.
Chemosh era in piedi nella Sala a osservare formarsi la fila di anime, una fila che doveva essere eterna, e si rammentò di quell’epoca terribile in cui la fila si era interrotta di colpo in maniera inaspettata. L’epoca in cui era comparsa davanti a lui l’ultima anima, e lui si era guardato attorno con uno stupore che non conosceva limiti. Il Signore della Morte si era alzato dal trono per la prima volta da quando aveva preso posto lì dall’inizio della creazione e si era precipitato fuori della Sala infuriato solo per scoprire che Takhisis aveva rubato il mondo e si era portata via le anime.
Chemosh aveva allora appreso la verità di un adagio dei mortali: non si apprezza mai ciò che si ha finché non lo si perde.
Inoltre si promette solennemente che non lo si perderà mai più.
Chemosh osservava le anime arrivare davanti a lui e ascoltava le loro storie e mercanteggiava e pronunciava il suo giudizio, e ne catturava alcune e ne lasciava andare altre, e aspettava di provare il caldo bagliore della soddisfazione.
In questo giorno non arrivava. Chemosh si sentiva decisamente insoddisfatto. Ciò che doveva andare bene stava andando tutto male. Aveva perso il controllo della situazione, e non aveva idea di come se lo fosse lasciato sfuggire. Era come se lui fosse stato maledetto...
A quella parola si rese conto all’improvviso perché fosse stato attirato qui, si rese conto di ciò che cercava.
Si trovava nella Sala delle Anime di Passaggio e vedeva di nuovo la prima anima che era arrivata davanti a lui quando il mondo era stato restituito: l’anima mortale di Takhisis. Tutti gli dèi erano stati presenti al suo passaggio. Chemosh udiva ancora le parole di lei, in parte supplica disperata e in parte ringhio di sfida.
«State commettendo un errore!» aveva detto loro Takhisis. «Ciò che io ho fatto non può essere disfatto. La maledizione è su di voi. Se distruggete me, distruggete voi stessi.»
Chemosh non poteva giudicarla. Nessuno degli dèi poteva farlo. Lei era stata una di loro, dopo tutto. Il Dio Supremo era venuto a rivendicare l’anima della figlia perduta, e il regno di Takhisis, Regina delle Tenebre, aveva avuto fine, e il tempo e l’universo erano andati avanti.
Chemosh all’epoca non aveva tenuto in nessuna considerazione la predizione di Takhisis. Chiacchiere, vaneggiamenti, minacce: Takhisis aveva sputato simili veleni per eoni. Chemosh non poté fare a meno di pensarci adesso, pensarci e domandarsi inquieto che cosa avesse voluto effettivamente dire la defunta e non compianta Regina.