«No», disse Nightshade. «Sì. Forse un po’.»
Il monaco mise una mano fresca sulla fronte di Nightshade. Il dolore scomparve. La forza gli inondò le membra.
«Grazie, fratello», disse Nightshade, consentendo al monaco di aiutarlo a rimettersi in piedi. Si sentiva ancora un po’ malfermo. «Immagino che vi abbia mandati Majere, eh?»
Il monaco non rispose, ma continuò a sorridere, per cui Nightshade, sapendo che nemmeno Rhys parlava molto e presumendo che fosse una cosa normale tra i monaci, prese il silenzio del monaco per un sì.
Mentre Nightshade e il monaco procedevano verso l’ingresso, il kender era immerso nei pensieri, e subito prima che uscissero dalla grotta Nightshade afferrò la manica del monaco e diede uno strattone.
«Io ho parlato a Majere con quello che si potrebbe definire un tono aspro», disse con rimorso Nightshade. «Sono stato piuttosto sfacciato, e potrei avere urtato i suoi sentimenti. Potreste dirgli che mi dispiace?»
«Majere sa che hai parlato per amore del tuo amico», disse il monaco. «Non è in collera. Ti rispetta per la tua fedeltà.»
«Davvero?» Nightshade arrossì di piacere. Quindi si sentì sopraffatto dal senso di colpa. «Mi ha aiutato a scassinare la serratura. Mi ha benedetto. Immagino che dovrei adorarlo, ma non posso. Non mi sembra giusto.»
«Che cosa crediamo non è importante», disse gentilmente il monaco. «L’importante è che crediamo.»
Il monaco si inchinò verso Nightshade, il quale rimase notevolmente turbato da questa dimostrazione di rispetto. A sua volta fece un inchino goffo, piegandosi all’altezza della vita, il che gli fece ruzzolare fuori dalla tasca della camicia diversi oggetti preziosi che lui non ricordava di avere. Si abbassò per ripescarli dall’acqua, e solo quando li ebbe recuperati o li ebbe considerati persi per sempre si rese conto che il monaco e la fiaccola non c’erano più.
Ormai, però, Nightshade non aveva bisogno della luce. Era avvolto in quello strano bagliore d’ambra che aveva notato in precedenza.
Uscì dalla grotta, pensando che mai nella sua vita era stato così contento di uscire da qualunque posto e promettendo solennemente che finché fosse vissuto non avrebbe più messo piede in un’altra grotta. Si guardò attorno, sperando di parlare di nuovo col monaco, poiché non aveva capito bene quella cosa riguardo al credere.
Non c’erano monaci.
Però c’era Rhys, seduto su una collinetta, che cercava di calmare Atta, la quale gli leccava il viso e le mani e gli saliva sopra, facendolo quasi cadere con le sue attenzioni frenetiche.
Nightshade emise un grido di contentezza e corse su per la collina.
Rhys lo abbracciò e lo strinse forte.
«Grazie, amico mio», disse con voce strozzata.
Nightshade sentì di dover tirare su col naso, e l’avrebbe fatto con abbandono, ma in quel momento Atta gli balzò addosso e lo fece cadere a terra, e il naso fu inondato di saliva di cane.
Quando Nightshade finalmente poté togliersi di dosso la cagna emozionata, vide Rhys in piedi che guardava fisso verso il mare, con un’espressione di meraviglia sul volto.
La luce argentea di Solinari brillava fredda su un’isola in mezzo al mare. La luce rossa di Lunitari illuminava una torre, nera sullo sfondo delle stelle, puntata, come un’accusa tenebrosa, contro il cielo.
«Quella lì c’era già prima?» domandò Nightshade, grattandosi la testa e tirandosi via un altro scarafaggio.
«No», disse Rhys.
«Ehi, ragazzi!» esclamò Nightshade, sgomento. «Chissà chi l’ha messa lì?»
E anche se non lo sapeva stava riecheggiando gli dèi.
16
La prima cosa che Chemosh vide entrando nel suo palazzo fu Ausric Krell, vivo e vegeto e nudo come il giorno in cui era venuto (di sedere) al mondo. Il formidabile cavaliere della morte sedeva rannicchiato in un angolo del grande salone, compiangendo il proprio destino e rabbrividendo.
Udendo l’ingresso del Signore della Morte, Krell balzò in piedi e gridò infuriato: «Guardate che cosa mi ha fatto quella lì, mio signore!». La sua voce si innalzò fino a diventare uno strillo. «Guardate!»
Chemosh guardò e desiderò di non avere guardato. La vista del corpo nudo di quell’uomo di mezza età, villoso, pallido come il ventre di un pesce, panciuto e flaccido, era sufficiente a fare rivoltare lo stomaco perfino a un dio. Guardò torvo Krell con disgusto mescolato a collera.
«Allora Zeboim ti ha beccato», disse freddamente Chemosh. «Dov’è?»
«Zeboim? Non è stata Zeboim!» Krell nella sua furia artigliò l’aria con le mani, come artigliando la carne di qualcuno. «È stata Mina! Mina!»
«Non mentirmi, perdigiorno», disse Chemosh, ma pur respingendo l’affermazione di Krell il Signore della Morte sentì un dubbio terribile oscurargli la mente. «Dov’è Mina? Ancora rinchiusa?»
Krell si mise a ridere. Il suo volto si contorse per il disprezzo e la paura. «Rinchiusa!» ripeté, con l’ilarità che gli gorgogliava in gola come se questa fosse stata la cosa più buffa del mondo.
«Questo disgraziato è impazzito», mormorò Chemosh, e abbandonò il delirante Krell per andare a cercare Mina.
La notte era illuminata da un bagliore d’ambra che inondava le finestre e brillava attraverso le fessure delle pareti e le crepe nella muratura. Chemosh trovava difficile vedere a causa di quella luce sfolgorante e, mentre si schermava gli occhi immortali contro quella luce, i dubbi gli aumentarono.
Si stava dirigendo verso la camera di Mina quando il castello si scosse e i muri tremarono. Un rombo tonante e fragoroso come lui aveva udito solo una volta in precedenza lo fece fermare per lo stupore. L’ultima volta che aveva udito quel rombo era stato quando era nato il mondo. Venivano sollevate le montagne, si intagliavano baratri in mezzo ai monti, e i mari erano bianchi per la spuma e per la gloria della creazione.
Chemosh cercò di vedere che cosa stesse succedendo, ma la luce era troppo intensa. Corse su per le scale uscendo sul parapetto merlato e si fermò di colpo.
Su un’isola di roccia nera appena formatasi sorgeva la Torre del Mare di Sangue. La Torre brillava di un bagliore d’ambra, e lì vi era Mina, in piedi davanti a lui con le braccia allargate, e alla vista abbagliata di Chemosh parve che Mina tenesse la torre fra le mani. Quindi Mina crollò sulla pietra e rimase lì immobile.
Chemosh poté soltanto restare a guardare.
Zeboim si sollevò dal mare, percorse l’etere e venne a mettersi in piedi sopra Mina.
I tre cugini abbandonarono le loro dimore celesti e discesero per guardare Mina.
L’uomo-toro, Sargonnas, scavalcò il muro del castello e si piantò nel cortile guardando torvo Chemosh. Comparve pure Kiri-Jolith, armato e abbigliato per la battaglia; e la Signora Bianca, Mishakal, bellissima e forte, al suo fianco. Arrivò Habbakuk, e Branchala con la sua arpa, e il vento toccò le corde e ne ricavò un suono mesto.
Morgion rimase nell’ombra, osservando tutti quanti con disprezzo ma trovandosi qui comunque, fra di loro. Chislev, Shinare, Simon erano assieme, accomunati dalla meraviglia. Reorx si accarezzava la barba. Aprì la bocca per dire qualcosa, poi sentendo il peso del silenzio il dio dei nani richiuse di scatto la bocca e parve a disagio. Hiddukel aveva l’aria arcigna e nervosa, nella certezza che la cosa sarebbe stata negativa per gli affari. Zivilyn e Gilean arrivarono per ultimi, impegnati in una conversazione, ma si zittirono quando videro gli altri dèi.
«Manca uno di noi», disse Gilean, e il suo tono era terribile. «Dov’è Majere?»
«Sono qui.» Majere camminò lentamente in mezzo a loro, senza dirigere lo sguardo su nessuno. Guardò soltanto Mina e sul suo volto vi era un dolore inesprimibile.
«Zivilyn mi dice che tu ne sai qualcosa.»
Majere continuò a guardare Mina. «Sì, Dio del Libro.»
«Da quando lo sai?»
«Da molti, molti eoni, Dio del Libro.»
«Perché tenerlo segreto?» domandò Gilean.
«Non stava a me svelarlo», rispose Majere. «Ho dato il mio giuramento solenne.»