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Atta si trovava fuori della porta sulla sabbia umida e si scrollava di dosso l’acqua, partendo dal didietro e procedendo in avanti. Quando Rhys la chiamò, Atta sgattaiolò con prudenza attraverso la porta. Chiaramente non voleva restare lì. Premendo il corpo contro quello di Rhys, si fermò tremante.

Nemmeno Nightshade voleva restare lì.

“Rhys”, disse con voce incerta, “è questa. Questa è quella Sala. È… è piuttosto spaventosa, Rhys. Non credo che dovremmo trovarci qui”.

Il Solio Febalas, la Sala del Sacrilegio: il ricettacolo della determinazione arrogante del Re-Sacerdote a sfidare gli dei. L’istinto di Nightshade (e di Atta) era giusto. Non era previsto che i mortali entrassero in questo luogo. La sala era sacra agli dei, alla loro ira. “Non sei arrabbiato con me perché ti ho fatto entrare, vero, signor monaco?” domandò malinconicamente Mina, facendo scivolare la mano in quella di Rhys.

Guardandola, Rhys non vedeva una dea. Vedeva una bambina con l’intelletto di una bambina: non ancora formato, con una conoscenza imperfetta del mondo; e si domandò all’improvviso se fosse ciò che gli dei vedevano quando guardavano l’umanità.

Rhys non percepiva più l’ira degli dei, tuttavia ne captava il dispiacere.

“No, Mina”, disse, “non sono arrabbiato con te”.

La Sala era immensa, di forma perfettamente rotonda, con un soffitto alto a cupola. Le pareti erano disseminate di nicchie intagliate nella pietra, ciascuna sacra a uno degli dei. Una singola runa ornava la parete di ciascuna nicchia. In certi casi le rune brillavano di luce. Vi erano la luce uniforme di Majere, la fiamma biancoazzurra di Mishakal, il bagliore argenteo quasi accecante di Kiri-Jolith.

Le nicchie sul lato opposto della sala erano buie e sembravano assorbire la luce. Il simbolo terrificante di Sargonnas, Dio della Vendetta, aggiungeva oscurità all’oscurità. La nicchia di Morgion era di un nero-verde ripugnante, quella di Chemosh di un bianco osseo agghiacciante.

Le nicchie intermedie, che separavano le tenebre dalla luce, sforzandosi di tenere a freno entrambe, appartenevano agli dei neutrali. Al centro vi era la nicchia sacra a Gilean. Sull’altare era posato un libro aperto. Una luce rossa illuminava una bilancia, in perfetto equilibrio, che si trovava al centro.

Sui due lati dell’altare di Gilean, una a sinistra e una a destra, vi erano due nicchie che non erano né buie né luminose, ma erano entrambe avvolte nell’ombra, come se su di loro fosse stato sospeso un velo. Un tempo, una era stata di un’oscurità impenetrabile, l’altra di una luminosità insopportabile. Entrambe ora erano vuote: gli altari di Takhisis, scacciata, e di Paladine, in esilio volontario.

La Sala era colma di oggetti sacri, accatastati sopra gli altari, ammucchiati in pile o gettati alla rinfusa sul pavimento. Portati qui dai soldati del Re-Sacerdote, erano stati gettati senza troppe cerimonie in questo magazzino della vergogna.

Rhys non riusciva a parlare. Non riusciva a vedere per via delle lacrime. Cadde in ginocchio e, deponendo con cura il bastone al suo fianco, congiunse le mani in preghiera.

“Signor monaco, vieni con me…” esordì Mina.

“Non credo che ti senta”, disse Nightshade.

Mina emise un breve sospiro. “Lo so come si sente. Io ho provato la stessa sensazione quando sono venuta qui… come se tutti gli dei si fossero riuniti attorno a me e mi stessero guardando. E io ero tanto piccola e sola.”

Fece una pausa, poi diede un’occhiata trepidante alle nicchie. “Ma devo comunque prendere il mio dono per Goldmoon e non voglio andarci da sola.” Si rivolse al kender. “Vieni tu con me.”

Nightshade lanciò un’occhiata bramosa agli altari, al vasto assortimento di oggetti strani e bellissimi, orribili e meravigliosi.

“Meglio di no”, disse alla fine, con rammarico. “Io sono un mistico, sai, e non sarebbe giusto.”

“Che cos’è un mistico?” domandò Mina.

“E un… ecco…” Nightshade era confuso. Prima di allora non gli era mai stato chiesto di definirsi. “Vuol dire che io non credo negli dei. Cioè, io credo negli dei: per forza, ho conosciuto Majere”, soggiunse con orgoglio. “Majere mi ha perfino aiutato a scassinare un lucchetto, anche se Rhys ha detto che un dio che scassina una serratura è un evento unico e io non devo aspettarmi che lo faccia ancora. Essere un mistico vuol dire che io non prego gli dei come fa Rhys. Come sta facendo adesso. Bè, immagino di avere effettivamente pregato Majere, ma quella preghiera non era per me. Era per Rhys, che non poteva pregare perché era quasi morto.”

Mina pareva confusa, e Nightshade decise di riassumere la sua spiegazione.

“Essere un mistico vuol dire che a me piace starmene per conto mio senza infastidire nessuno.”

“Ottimo”, disse Mina. “Puoi startene per conto tuo con me. Io non voglio tornare lì da sola. È un luogo buio e spettrale. E potrebbero esserci dei ragni.”

Nightshade scrollò il capo.

“Per favore!” implorò Mina.

Nightshade dovette ammettere di essere tentato. Peccato che Mina avesse menzionato i ragni…

“Non hai coraggio!” lo canzonò Mina.

Nightshade tentennò.

“Non hai coraggio, sei un fifone!” disse Mina.

Questo fu decisivo. Era in gioco l’onore di Nightshade. Nessun kender nella lunga e gloriosa storia dei kender si era mai tirato indietro in una sfida del genere.

“Arrivo prima io!” gridò, e sfrecciò via.

Caele non aveva mai visto effettivamente la Sala del Sacrilegio, ma era stato capace di visualizzarla con il suo incantesimo. Il drago, Midori, una volta gliel’aveva descritta. Caele all’epoca non aveva prestato grande attenzione alla descrizione; il drago aveva blaterato un po‘“in proposito semplicemente per tormentarlo. Midori sapeva che il mago era terrorizzato e lei trovava divertente tenerlo a distanza di spuntino.

Caele era stato male per la paura il giorno in cui il drago aveva trascorso un’orribile mezz’ora a blaterare del castello di sabbia e di come Nuitari fosse stato astuto nel costruirlo per ospitare gli oggetti sacri e di come fosse un peccato che lui (Caele) non potesse vederlo mai in vita sua. Caele non rammentava quasi nulla di quella conversazione, ma riuscì a recuperare dalla memoria le parole “castello di sabbia” e con questa immagine in mente fu trasportato dalla sua magia in quel luogo.

Comparve sulla soglia e subito si immobilizzò, non osando muoversi finché non avesse valutato la situazione. Il monaco era in ginocchio e piagnucolava. Il cane era accovacciato al suo fianco. Il kender e la monella erano andati a saccheggiare un altare. Nessuna traccia di Basalt.

Caele aveva progettato di uccidere subito il monaco, ma l’incantesimo micidiale che voleva lanciare gli uscì di mente mentre il suo sguardo sbalordito passava da un altare all’altro. Neanche nei suoi sogni più avidi aveva mai immaginato quelle ricchezze insondabili. Ed erano lì esposte, incustodite, imploravano semplicemente di essere portate via e vendute al miglior offerente. Caele era tanto commosso che si sarebbe messo a piagnucolare come il monaco.

Di scatto tornò alla realtà. Prima di tutto doveva sbarazzarsi della concorrenza. Caele conosceva un’infinità di incantesimi che uccidevano le persone in vari modi sgradevoli. Stava mettendo mano alla calamita magica che avrebbe disintegrato il monaco riducendolo in masse di carne grumose e grondanti quando colse un movimento vicino a uno degli altari.

Caele guardò fisso in quella direzione. Non sapeva bene a quale dio appartenesse quell’altare, e nemmeno gli importava. Uno degli oggetti che luccicavano sull’altare era un calice incastonato di gioielli. Caele aveva già notato che era particolarmente prezioso, e si rese conto che anche qualcun altro ne aveva intuito il valore. Una forma indistinta vi si avvicinò furtivamente: una forma indistinta e pelosa che allungava la mano.

“Basalt!” ringhiò Caele.

La cagna balzò in piedi abbaiando.

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