“Dei dei Rammolliti, vero, Malek?” ringhiò Galdar. “Tu hai perso la punta del corno per via di una donna Cavaliere di Solamnia. Era una rammollita o ti ha preso a calci in quel tuo sedere miserabile?”
Il minotauro parve mortificato. I compagni sorrisero di lui, e uno gli assestò un colpetto col gomito.
“Fintanto che non minacciamo di far del male al Dio che Cammina, gli Dei della Luce non interverranno. Così mi ha assicurato il sacerdote di Sargas.”
“E che ce ne facciamo di questo Dio che Cammina una volta che l’abbiamo preso, signore?” domandò un altro. “Ancora non ce l’avete detto.”
“Perché non voglio appesantirvi il cervello con più di un pensiero per volta”, gli disse Galdar. “Tutto ciò di cui dovete preoccuparvi adesso è catturare il Dio che Cammina. Vivo!”
Galdar drizzò un orecchio. Le voci e il rumore di passi si avvicinavano.
“Prendete posizione”, ordinò disperdendo i suoi soldati e mandandoli di corsa verso i fossati sui due lati della strada. “Non muovete un muscolo e tenetevi controvento! Questi maledetti elfi hanno fiuto per individuare un minotauro.”
Galdar si accovacciò dietro una grande quercia. La sua spada rimase nel fodero. Il minotauro sperava di non doverla usare, e si strofinò il moncone del braccio mancante. La ferita era vecchia. Il braccio era completamente guarito, ma talvolta, stranamente, quell’arto che non c’era più gli doleva ancora. Questa sera il braccio gli bruciava e gli pulsava peggio del solito. Ne dava la colpa all’umidità, ma si domandò se gli facesse male perché stava pensando a Mina, rammentando il loro primo incontro. Mina aveva allungato la mano verso di lui e il suo tocco l’aveva guarito, restituendogli l’arto mozzato.
L’arto che aveva perso di nuovo cercando di salvarla.
Si domandò se Mina ricordasse, se pensasse mai al periodo trascorso insieme, il periodo più felice e orgoglioso della sua vita.
Probabilmente no, adesso che era una somma sacerdotessa e quindi una persona importante.
Galdar si strofinò il braccio, maledisse l’umidità e ascoltò le voci degli elfi avvicinarsi.
Accovacciandosi tra le foglie morte e le ombre, i soldati minotauri stringevano le armi e aspettavano.
Due guerrieri elfi camminavano davanti, quattro procedevano dietro. Valthonis e il druido di Chislev avanzavano al centro del gruppo, assorti nella loro conversazione. Elspeth stava molto vicino a lui, quasi alle sue calcagna. Di solito si teneva a distanza, più indietro, diversi passi alle spalle della retroguardia. Questo cambiamento improvviso accresceva l’inquietudine che gli altri provavano nel trovarsi tanto vicino alla maledetta valle di Neraka, dove un tempo regnava la Regina delle Tenebre. Avevano domandato a Valthonis perché avesse scelto di venire qui, in questo luogo spaventoso, ma lui sorrideva e ribadiva ciò che di solito rispondeva alle loro domande: “Io non vado dove voglio, io vado dove devo essere presente”.
Poiché non potevano ricavare informazioni dal Dio che Cammina, uno dei Fedeli si incaricò di interrogare Elspeth, chiedendole a bassa voce che cosa non andasse, che cosa temesse. Elspeth poteva anche essere sorda, oltre che muta, poiché non guardò nemmeno nella sua direzione. Tenne lo sguardo fisso su Valthonis e, come l’elfo in seguito riferì ai suoi compagni, aveva il viso tirato e teso.
Già inquieti e nervosi a causa dell’ambiente circostante, i guerrieri elfi non furono presi del tutto alla sprovvista da quell’attacco inatteso. Qualcosa parve loro fuori posto quando passarono sotto le foglie dei rami degli alberi soprastanti. Forse fu un odore; i minotauri hanno un puzzo bovino che non è facile nascondere. Forse fu lo spezzarsi di un ramoscello sotto uno stivale pesante, oppure il movimento di un corpo massiccio nel sottobosco. Qualunque cosa fosse, gli elfi percepirono un pericolo e rallentarono il passo.
I due davanti sguainarono le spade e indietreggiarono per prendere posizione ai lati di Valthonis. Gli elfi che seguivano incoccarono le frecce e sollevarono gli archi, girandosi per scrutare attentamente le ombre in movimento fra gli alberi.
“Mostratevi!” gridò secco nella lingua comune uno degli elfi.
I soldati minotauri obbedirono al comando, arrampicandosi fuori dai fossi e riversandosi sulla strada. L’acciaio cozzò contro l’acciaio. Le corde degli archi vibrarono e il druido prese a cantilenare una preghiera a Chislev, invocando l’aiuto benedetto della dea.
La voce di Valthonis squarciò quel caos, risuonando forte e vigorosa. “Fermatevi! Subito!”
Parlò con tale autorità che tutti i combattenti gli obbedirono, compresi i minotauri, che per istinto reagirono a quel tono imperioso. Un istante dopo si resero conto che era stata la loro vittima designata a ordinare di smetterla e, sentendosi sciocchi, si lanciarono di nuovo all’attacco.
Questa volta sbraitò Galdar: “Fermatevi in nome di Sargas!”. I soldati minotauri, vedendo il loro comandante avanzare a lunghi passi, con riluttanza abbassarono le spade e indietreggiarono.
Gli elfi e i minotauri si scrutarono a vicenda minacciosamente. Nessuno attaccò, ma nessuno rinfoderò le armi. Il druido stava ancora pregando. Valthonis mise una mano sulla spalla dell’uomo e pronunciò una parola sottovoce. Il druido gli rivolse un’occhiata supplichevole, ma Valthonis scrollò il capo, e la preghiera a Chislev si concluse con un sospiro.
Galdar sollevò l’unica mano per mostrare che non portava armi e si avvicinò a Valthonis. I Fedeli si mossero per frapporre il proprio corpo tra il Dio che Cammina e il minotauro.
“Dio che Cammina”, disse Galdar, sovrastando coloro che lo bloccavano, “vorrei parlare con voi… in privato”.
“Fatevi da parte, amici miei”, disse Valthonis. “Ascolterò ciò che ha da dire.”
Uno degli elfi cercò di controbattere, ma Valthonis non volle ascoltarlo. Chiese di nuovo ai Fedeli di farsi da parte e così fecero, per quanto controvoglia e con riluttanza. Galdar ordinò ai suoi soldati di mantenere le distanze e questi obbedirono, seppure con sguardi minacciosi in direzione degli elfi.
Galdar e Valthonis si spostarono fra gli alberi, per non essere a portata d’orecchio dei loro seguaci.
“Voi siete Valthonis, un tempo il dio Paladine”, affermò Galdar.
“Io sono Valthonis”, disse dolcemente l’elfo.
“Io sono Galdar, emissario del grande dio chiamato dai minotauri Sargas, e chiamato da quelli come voi Sargonnas. Il mio dio mi impone di pronunciare queste parole: “Tu hai questioni in sospeso nel mondo, Valthonis, e poiché hai scelto di allontanarti da questa sfida vi è una nuova disputa in cielo e fra gli uomini. Il grande Sargas vuole porre fine a questa disputa. La questione deve essere condotta a una soluzione rapida e definitiva. Per facilitarla, il dio organizzerà un incontro fra te e la tua sfidante”.
“Immagino mi consideriate effettivamente polemico, emissario, ma temo di non sapere nulla di questa disputa né nella sfida di cui parlate”, rispose Valthonis.
Galdar si strofinò il muso col dorso della mano. Era a disagio, poiché credeva nell’onore e nella sincerità, e in questa situazione si stava comportando in maniera non proprio sincera, non proprio onorevole.
“Forse non è una sfida, da parte di Mina”, chiarì Galdar, sperando che il dio capisse. “Piuttosto una minaccia. Comunque”, proseguì prima che Valthonis potesse replicare, “aleggia su voi due, come un fumo tossico che avveleni l’aria”.
“Ah, adesso capisco”, disse Valthonis. “Parlate della solenne promessa di Mina di uccidermi.”
Galdar guardò inquieto la sua pattuglia di minotauri. “Parlate a bassa voce quando menzionate il suo nome. Il mio popolo la considera una strega.”
Si schiarì la voce e soggiunse con fermezza: “Sargas mi ha detto di dire che il Dio dalle Corna vuole farvi incontrare, perché voi due possiate risolvere le vostre divergenze”.
Al che Valthonis sorrise beffardamente, e Galdar, imbarazzato, continuò a strofinarsi il muso. Sargas non aveva alcuna intenzione di vedere i due risolvere le loro divergenze. Galdar non provava affetto per nessun elfo, ma si rifiutava sdegnosamente di mentire a Valthonis qui. Aveva però ricevuto degli ordini, e pertanto diceva ciò che gli era stato detto di dire, anche se chiariva di non essere lui a dirlo.