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I due furono interrotti da uno dei Fedeli, che esclamò: “Non avete bisogno di parlamentare con questo bestione, signore. Noi possiamo e vogliamo difendervi…”.

“Non si verserà sangue per causa mia”, disse aspramente Valthonis. Lanciò un’occhiata severa ai Fedeli. “Avete percorso la strada con me per tutto questo tempo e mi avete ascoltato parlare di pace e fratellanza, eppure non avete udito nulla di ciò che vi ho detto?”

La sua voce strideva, e i suoi seguaci erano imbarazzati. Non sapevano dove guardare per evitare i suoi occhi irati, e così distolsero lo sguardo rivolgendolo a terra. Soltanto Elspeth non guardò altrove. Soltanto lei incrociò lo sguardo di Valthonis. Questi le sorrise per rassicurarla e poi si voltò di nuovo verso Galdar.

“Io verrò con voi a condizione che ai miei compagni sia consentito andarsene illesi.”

“Questi sono i miei ordini”, disse Galdar. Alzò la voce in modo che tutti sentissero. “Sargas vuole la pace. Non vuole vedere spargere sangue.”

Al che uno degli elfi sogghignò, uno dei minotauri ringhiò e i due balzarono l’uno contro l’altro. Galdar si scagliò contro il minotauro e gli assestò un pugno alla mascella. Elspeth afferrò il braccio armato del guerriero elfo e lo tirò indietro. Sbigottito, il guerriero abbassò subito l’arma.

“Se verrete con noi, signore”, disse Galdar, facendo scrocchiare le nocche ammaccate, “vi faremo da scorta. Datemi la vostra promessa solenne che non cercherete di fuggire, e io non vi incatenerò”.

“Avete la mia parola”, disse Valthonis. “Non fuggirò. Vengo con voi di mia spontanea volontà.”

Disse addio ai Fedeli, dando la mano a ognuno di loro e chiedendo agli dei di benedirli.

“Non temete, signore”, disse uno sottovoce, parlando nella lingua degli elfi del Silvanesti, “verremo a soccorrervi”.

“Ho dato la mia parola”, disse Valthonis. “La manterrò.” “Ma, signore…”

Il Dio che Cammina scrollò il capo e si voltò, ma trovò Elspeth a bloccarlo. Sembrava volesse parlare, poiché le tremava il mento e dalla gola le uscivano suoni bassi, quasi animaleschi.

Valthonis le toccò la guancia con la mano. “Non occorre che tu dica niente, bambina. Capisco.”

Elspeth gli afferrò la mano e se la premette sulla guancia.

“Prendetevi cura di lei”, ordinò Valthonis ai Fedeli.

Delicatamente liberò la mano dalla stretta di Elspeth e si incamminò verso il punto in cui lo attendevano Galdar e i guerrieri minotauri.

“Avete la mia parola. E io ho la vostra”, disse Valthonis. “I miei amici si allontanano illesi.”

“Possa Sargas portarmi via l’altro braccio se tradisco il mio giuramento”, disse Galdar. Entrò nella foresta e Valthonis lo seguì. I guerrieri minotauri si strinsero attorno a entrambi.

I Fedeli rimasero sul sentiero, con crescente tristezza, a guardare il loro maestro allontanarsi. La vista da elfi consentì loro di seguire le tracce di Valthonis per lungo tempo e poi, quando non riuscirono più a vederlo, udirono i minotauri aprirsi la strada nella boscaglia con schianti e colpi di taglio. I Fedeli si guardarono a vicenda. I minotauri avevano lasciato una pista che anche un nano di fosso cieco avrebbe potuto seguire. Sarebbero stati facilmente rintracciabili.

Uno dei fedeli si incamminò per seguirli. La silenziosa Elspeth lo fermò.

“Ha dato la sua parola”, disse usando il linguaggio dei segni, toccandosi con la mano la bocca e poi il cuore. “Ha fatto la sua scelta.”

Addolorati, i Fedeli presero a ripercorrere i loro passi, ritornando da dove erano venuti. Ci volle del tempo prima che qualcuno si rendesse conto che Elspeth non era più con loro. Memori della promessa data, si misero a cercarla e finalmente trovarono le sue tracce. Procedeva lungo lo stesso percorso seguito dal Dio che Cammina: la strada per Neraka. Si era rifiutata di farsi da parte, e i Fedeli, memori della loro promessa di badare a lei, la accompagnarono.

4

Rhys stava sognando di essere osservato e si svegliò allarmato con un sussulto scoprendo che il suo sogno era vero. Un volto si librava sopra di lui. Per fortuna il volto era di sua conoscenza, e Rhys chiuse gli occhi con sollievo e acquietò il cuore che gli batteva rapidamente.

Nightshade, col mento nella mano, era seduto a gambe incrociate accanto a Rhys e lo scrutava. Il kender aveva un’aria malinconica.

“Era ora accidenti che ti svegliassi!” mormorò Nightshade.

Rhys sospirò e tenne gli occhi chiusi ancora per un attimo. Fino a quel sogno, il sonno era stato profondo, dolce e riposante, e Rhys si destò con rammarico. Tanto più che dal barlume da lui colto dell’espressione arcigna di Nightshade pareva che il risveglio non sarebbe stato neanche lontanamente così piacevole.

“Rhys.” Nightshade lo picchiettò col dito. “Non osare tornare a dormire. Su, Atta, vieni a sbavargli addosso.”

“Sono sveglio”, disse Rhys, tirandosi su a sedere. Arruffò il pelo ad Atta, poiché la cagna era scontenta e gli ficcava la testa nel collo per farsi consolare. Continuando a calmare Atta, Rhys si trasse più in su e si guardò attorno.

“Dove siamo?” domandò sbalordito.

“Posso dirti dove non siamo”, affermò tristemente Nightshade. “Non siamo nella casa della bella signora che fa il panpepato migliore del mondo. Cioè dove eravamo tutti e due ieri, e ieri l’altro, ed eravamo lì quando io sono andato a dormire ieri sera, ed è lì che dovevamo essere stamattina, però non ci siamo. Siamo qui. Dovunque sia questo “qui”. E non mi rincresce dirti”, soggiunse il kender con voce tesa, “che preferirei essere da qualche altra parte. Qui non è affatto un bel posto”.

Rhys scostò delicatamente Atta e si alzò svelto in piedi. La foresta non c’era più, come pure la casupola dove, come aveva detto Nightshade, lui, il kender, Atta e Mina avevano trascorso due giorni e due notti: giorni e notti di benedetta pace e tranquillità. Avevano intenzione di partire quella mattina per l’ultima tappa del loro viaggio, ma pareva che Mishakal li avesse prevenuti.

Sotto i loro occhi vi era una valle brulla e desolata sospesa fra le creste bruciacchiate di vari vulcani attivi. Dalle cime annerite si levavano viluppi di vapore, che si innalzavano nel cielo di un azzurro intenso e terso. L’aria era fredda, il sole minuscolo com’era non irradiava calore. Le ombre si allungavano sul suolo grigio di pietra della valle, privo di tracce, riducendosi fino a scomparire. L’aria era rarefatta e solforosa, difficile da respirare. Rhys sembrava non riuscire a inspirarne abbastanza da riempirsi i polmoni. Particolarmente terribile era il silenzio che pareva vivo, come un respiro. Vigile, in attesa.

Questa valle era disseminata di strane formazioni rocciose. Dalle pietre spuntavano enormi cristalli neri, dai margini frastagliati e sfaccettati. I monoliti, alcuni dei quali raggiungevano o superavano i sei metri di altezza, erano sparsi a casaccio nella valle. Non erano una formazione naturale, non sembravano essere spuntati dal terreno. Sembravano piuttosto essere stati scagliati giù dal cielo da qualche forza immensa, la cui furia li avesse conficcati in profondità nel suolo della valle.

“Il minimo che potevi fare era portare con te il panpepato”, disse Nightshade. “Adesso non abbiamo niente per colazione. Lo so che ho acconsentito a venire con te a cercare il Dio che Cammina, ma non sapevo che il viaggio sarebbe stato così improvviso.”

“Nemmeno io”, disse Rhys, e poi soggiunse aspramente: “Dov’è Mina?”.

Nightshade agitò un pollice sopra la spalla. Mina aveva atteso con lui accanto a Rhys addormentato finché non si era annoiata e si era allontanata per ispezionare la valle. Si trovava a una certa distanza e guardava il proprio riflesso in uno dei monoliti cristallini.