“Se non siete di ritorno per mezzogiorno, verremo a prendervi, signore”, affermò il vicecomandante, e gli altri minotauri alzarono la voce per dirsi d’accordo.
“No, non venite”, disse Galdar, guardandoli tutti con occhio furioso. “Se non sono di ritorno per il tramonto, ritornate a Jarek. Presentate rapporto ai sacerdoti di Sargas.”
“E che cosa diciamo, signore?” domandò il vice.
“Che io ho fatto come ha ordinato Sargas”, rispose con orgoglio Galdar.
I suoi soldati capirono e, sebbene la cosa non fosse di loro gradimento, non mossero più obiezioni. Abbandonarono la cresta e ritornarono alle colline pedemontane, per passare il tempo giocando a dadi, senza che nessuno si divertisse molto.
Galdar e l’elfo continuarono a scendere lungo ciò che rimaneva di una strada. Galdar si domandava se fosse la strada che aveva percorso quella notte, la notte della tempesta, la notte di Mina. Non la riconosceva, ma non c’era da meravigliarsene. Aveva fatto l’impossibile per cercare di dimenticare quella marcia da incubo.
“Io arrivai qui per la prima volta con una pattuglia la notte della grande tempesta”, spiegò Galdar quando lasciarono la strada ed entrarono nella valle. “All’epoca non lo sapevamo, ma la tempesta era Takhisis, la quale annunciava al mondo che l’Unico Dio era tornato e questa volta intendeva prendersi tutto. Eravamo agli ordini del comandante Maggit, un prepotente e un codardo, il genere di comandante che fugge sempre da una battaglia, e poi compie qualche stupida bravata per cercare di dimostrare quanto sia coraggioso e così facendo si fa uccidere metà dei suoi soldati.”
Il comandante Maggit smontò da cavallo. “Ci accamperemo qui. Pianta la mia tenda di comando presso il più alto di questi monoliti, Galdar; tu sei responsabile dell’allestimento del campo. Confido che tu sappia eseguire questo semplice incarico. “
Il suono delle sue parole parve innaturalmente forte, la sua voce acuta e rauca. Un alito di vento, freddo e pungente, attraversò la valle sibilando, sollevò la sabbia in mulinelli di polvere che turbinarono sul terreno brullo, e si allontanò con un sussurro.
“State commettendo un errore, signore”, disse Galdar in tono sommesso, per disturbare quanto meno possibile il silenzio. “Non siamo desiderati, qui.”
“Chi non ci desidera, Galdar?” Il comandante Maggit sogghignò. “Queste pietre?” Diede una pacca sul fianco di un monolite di cristallo nero. “Bah! Che testone di vacca superstiziosa!”
“Ci accampammo”, disse Galdar, con voce bassa e solenne. “In questa valle. Fra le rovine maledette del tempio di Takhisis.”
Un uomo poteva vedere il proprio riflesso in quelle superfici nere lucenti, un riflesso distorto, deformato, eppure completamente riconoscibile…
Questi uomini, da tempo induriti e immuni da ogni buon sentimento, guardarono la superficie nera luccicante dei cristalli e rimasero atterriti per via dei volti che rispondevano al loro sguardo. Infatti, su quei volti potevano vedere la loro bocca aprirsi per intonare quel canto terribile.
Galdar diede un’occhiata ai monoliti neri cristallini che costellavano la valle, e non poté reprimere un brivido.
“Andate a guardare dentro uno di questi”, disse a Valthonis. “Non vi piacerà ciò che vedrete. La pietra vi deforma il riflesso, cosicché vi vedrete sotto forma di qualche mostro.”
Valthonis si fermò per scrutare una delle pietre. Anche Galdar si fermò, pensando che sarebbe stato divertente vedere la reazione dell’elfo. Valthonis scrutò il proprio riflesso, poi diede un’occhiata a Galdar. Il minotauro si mise alle spalle dell’elfo per vedere ciò che vedeva lui. Il riflesso dell’elfo luccicava sulla pietra. Il riflesso era uguale alla realtà: un elfo col volto logorato dalle intemperie e con occhi antichi.
“Mmmh”, grugnì Galdar. “Forse la maledizione della valle è stata rimossa. Io non sono più stato qui dopo la fine della guerra.”
Scostò Valthonis col gomito e si mise davanti alla pietra guardando coraggiosamente se stesso.
Il Galdar riflesso nella pietra aveva due braccia integre.
“Dammi la mano, Galdar”, gli disse Mina.
Al suono di quella voce, aspra e dolce, Galdar udì di nuovo il canto risuonare fra le rocce. Sentì drizzarsi i peli attorno al collo. Lo percorse un brivido, un’emozione gli fece correre un brivido lungo la spina dorsale. Intendeva distogliersi da Mina, ma si scoprì a sollevare la mano sinistra. “No, Galdar”, disse Mina. “La mano destra. Dammi la mano destra. “
“Non ho la mano destra!” gridò Galdar con furia e angoscia. Osservò il proprio braccio, il destro, sollevarsi; vide la mano, la destra, tendere le dita tremanti. Mina porse la mano e toccò quella fantasma del minotauro.
“Il braccio con cui reggi la spada ti è restituito…”
Galdar scrutò il proprio riflesso. Piegò la mano sinistra, l’unica mano che aveva. Il suo riflesso piegò entrambe le mani. Un liquido ardente gli infiammò gli occhi; lui si voltò di scatto, con rabbia e prese a perlustrare con lo sguardo la valle, cercando qualche traccia di Mina. Adesso che era qui, era impaziente di sbrigare questa faccenda. Voleva superare il primo incontro imbarazzato, sopportare il dolore della delusione, lasciarla in compagnia dell’elfo e proseguire con la propria vita.
“Ricordo quando avete perso il braccio che vi aveva dato Mina”, disse Valthonis, le prime parole che pronunciava da quando era stato preso prigioniero. “Cadeste difendendo Mina da Takhisis, la quale la accusava di complottare contro di lei e l’avrebbe uccisa in preda alla furia. Voi faceste da schermo a Mina col corpo e la Regina delle Tenebre vi recise il braccio. Sargas si offrì di restituirvi il braccio, ma voi rifiutaste…”
“Chi vi ha dato il permesso di parlare, elfo?” domandò rabbiosamente Galdar, domandandosi perché avesse consentito che quelle ciance proseguissero tanto a lungo.
“Nessuno”, disse Valthonis con un mezzo sorriso. “Starò zitto se preferite.”
Galdar non voleva ammetterlo, ma trovava calmante il suono di un’altra voce in questo luogo in cui un tempo parlavano soltanto i morti, per cui disse: “Sprecate pure il vostro ultimo fiato se volete. Le vostre prediche non avranno effetto su di me”.
Galdar si fermò per scrutare la valle con gli occhi socchiusi. Gli parve di cogliere dei movimenti, delle persone in lontananza. La pallida luce solare sembrava giocargli scherzi agli occhi, ed era difficile per lui stabilire se stesse vedendo davvero degli esseri viventi spostarsi qua e là, oppure fantasmi, oppure soltanto le strane ombre proiettate dagli odiosi monoliti.
Si rese conto che non erano ombre. Né fantasmi. Vi erano persone laggiù, e dovevano essere quelle che gli era stato detto di incontrare.
Vi era il monaco dalla veste arancione che doveva essere l’accompagnatore di Mina. Ma, in tal caso, dov’era Mina?
“Maledizione a questo luogo dannato!” disse Galdar con collera improvvisa.
Gli era stato assicurato che Mina sarebbe stata col monaco, ma Galdar non vedeva traccia di lei. Non aveva capito perché Mina dovesse viaggiare con un monaco, comunque. La cosa non gli era piaciuta fin da principio e adesso gli piaceva sempre meno.
Tirando un tratto di corda dalla cintura, Galdar ordinò a Valthonis di porgere le mani.
“Vi ho dato la mia parola che non avrei cercato di fuggire”, disse con calma Valthonis.
Galdar grugnì e legò saldamente la corda attorno ai polsi sottili dell’elfo. Stringere il nodo non fu facile per il minotauro con un braccio solo. Galdar dovette usare i denti per concludere l’opera.
“Legato o no, non posso sfuggirle”, soggiunse Valthonis. “E voi nemmeno, Galdar. Voi avete sempre saputo che Mina era una dea, vero?” “Zitto”, ordinò ferocemente Galdar.
Afferrando bruscamente l’elfo per un braccio, Galdar spinse in avanti Valthonis.
Il lampo successivo non era un fulmine ma una cortina di fiamme che illuminò il cielo, il suolo e le montagne di una luminosità bianco-purpurea. Stagliandosi su quel chiarore terribile, una figura si mosse verso di loro, camminando con calma nell’infuriare della tempesta, apparentemente non toccata dal vento fortissimo, non impressionata dai fulmini, non timorosa dei tuoni. “Come ti chiami?” domandò Galdar.