Mina lasciò andare i capelli e il kender si accasciò a terra.
Rhys strisciò accanto all’amico. Nightshade lo fissava senza vederlo. A Rhys si riempirono gli occhi di lacrime. Non cercò Mina. Stava per uccidere anche lui, e Rhys non poteva fermarla. Atta gemeva. La spada le aveva aperto la spalla fino all’osso. Rhys raccolse accanto a sé la cagna sofferente, morente, quindi allungò la mano macchiata di sangue con l’intento di chiudere gli occhi a Nightshade.
Una bambina dalle trecce rosse si accovacciò accanto al kender.
“Adesso puoi alzarti, Nightshade”, disse Mina.
Poiché lui non si muoveva, Mina lo scrollò per le spalle.
“Smettila di far finta di dormire, Nightshade”, lo rimproverò. “E ora di partire. Io devo andare a Godshome, e la carta geografica ce l’hai tu.”
A Mina tremò la voce. “Svegliati!” disse la bambina deglutendo. “Per favore, per favore, svegliati.”
Il kender non si mosse.
Mina scoppiò in un pianto disperato e si gettò sul corpo.
“Scusa, scusa, scusa!” gridò ripetutamente in un parossismo di dolore.
“Mina…” Rhys mormorò il suo nome in mezzo al sangue, alle ossa e ai denti rotti, e quel nome riecheggiò sui Signori del Destino.
“Mina, Mina…”
Mina si alzò. La bambina guardò afflitta verso Nightshade, ma fu la donna Mina a chiudergli delicatamente gli occhi che la fissavano. La donna Mina andò verso Galdar. Pose la mano su di lui e gli sussurrò qualcosa. La donna tornò da Atta e la accarezzò delicatamente. Poi Mina si inginocchiò accanto a Rhys. Sorridendo triste, lo toccò sulla fronte.
L’ambra, calda e dorata, lo inondò.
7
Mina, la donna, sedeva accanto a Valthonis sulla pietra dura spazzata dal vento. Non portava armatura, né la veste nera di una sacerdotessa di Chemosh. Indossava un semplice abito lungo che le ricadeva a pieghe sul corpo. I capelli ramati erano raccolti in boccoli delicati sulla nuca. Se ne stava seduta tranquilla, osservando il Dio che Cammina, aspettando che riacquistasse conoscenza.
Valthonis finalmente si tirò su a sedere, si guardò attorno, e l’espressione gli si fece seria. Alzandosi rapidamente, andò ad assistere i feriti. Mina lo osservava con freddezza, col volto impassibile, illeggibile.
“Il kender è morto”, disse Mina. “L’ho ucciso io. Il monaco, il minotauro e il cane sopravvivranno, penso.”
Valthonis si inginocchiò accanto al kender e, sistemando delicatamente il corpo fratturato per dargli una forma più decorosa, pronunciò una benedizione a bassa voce.
“Scrollati di dosso la polvere della strada, piccolo amico. Adesso i tuoi stivali sono cosparsi di polvere di stelle.”
Togliendosi il mantello verde, lo stese con riverenza sopra il piccolo cadavere.
Valthonis si chinò su Atta, che scodinzolò fiaccamente e gli passò la lingua sulla mano. Valthonis scostò il pelo nero ricoperto di sangue, ma non riuscì a trovare una ferita. Le accarezzò la testa e poi andò a esaminare il suo padrone.
“Credo di conoscere questo monaco”, disse Mina. “L’ho già incontrato. Stavo cercando di rammentarmi dove, e adesso me lo ricordo. Era su una barca… No, non una barca. Una taverna che in precedenza era stata una barca. Lui era lì, io sono entrata e lui mi ha guardata e mi ha riconosciuta… Sapeva chi ero io…” Si accigliò leggermente. “Però non lo sapeva…”
Valthonis alzò la testa e la guardò negli occhi d’ambra. Non vide più le innumerevoli anime, intrappolate all’interno come insetti. Vide in quegli occhi limpidi una conoscenza terribile. E vide se stesso, riflesso sulla superficie luccicante.
“Il monaco era seduto accanto a un uomo… Era un uomo morto. Non conosco il suo nome.” Mina fece una pausa, poi disse con un’esitazione nella voce: “Tanti di loro… e non conoscevo il nome di nessuno. Ma conosco il nome del monaco. È fratello Rhys. E lui conosce il mio. Mi conosce. Sa chi sono e che cosa sono. Eppure è venuto via con me ugualmente. Mi ha guidata”. Fece un sorriso triste. “Mi ha sgridata…”
Valthonis posò la mano sul collo di Rhys, percepì la pulsazione della vita. Il monaco aveva il volto insanguinato, ma Valthonis non riuscì a trovare ferite. Non disse nulla in risposta a Mina. Aveva la sensazione istintiva che lei non volesse sentirlo parlare. Voleva, doveva udire soltanto se stessa nel silenzio mortale della valle di Neraka.
“Anche il kender mi conosceva. Quando mi ha vista per la prima volta, si è messo a piangere. Piangeva per me. Piangeva per compassione. Mi ha detto: “Sei così triste”… E il minotauro, Galdar, era mio amico. Un amico buono e fedele…”
Mina spostò lo sguardo dal minotauro all’ambiente spoglio e spettrale. “Detesto questo luogo. Lo so dove mi trovo. Sono a Neraka, e sono accadute cose orribili per causa mia… E accadranno altre cose orribili… per causa mia…”
Spostò lo sguardo su Valthonis e lo osservò, supplichevole.
“Tu sai che cosa intendo. Il tuo nome significa “l’Esule” nella lingua degli elfi. E tu sei mio padre. E tutti e due, noi, padre mortale e figlia disgraziata, siamo esuli. Però tu non potrai mai ritornare.” Mina emise un sospiro, lungo e profondo. “Invece io devo.”
Valthonis si spostò verso il minotauro. Gli mise la mano sul collo robusto, simile a quello di un toro.
“Io sono una divinità”, disse Mina. “Vivo in tutte le epoche contemporaneamente. Anche se”, soggiunse, corrugando la fronte liscia, “vi è un’epoca prima del tempo che io non ricordo, e un’epoca ancora a venire che io non posso vedere…”.
Il vento sibilava tra le rocce, come fra denti marci, ma Valthonis non udiva nulla a parte Mina. Era come se il mondo fisico gli fosse mancato sotto i piedi, lasciandolo sospeso nell’etere, e vi fosse soltanto la voce di lei e gli occhi d’ambra che sotto lo sguardo di Valthonis si colmavano di lacrime.
“Ho fatto del male, padre mio”, disse Mina, mentre le lacrime si riversavano fuori e le scendevano lentamente lungo le guance. “O meglio, io faccio del male, perché vivo in tutte le epoche simultaneamente. Dicono che io sia una divinità nata dalla luce eppure io genero le tenebre. Migliaia di innocenti muoiono per causa mia. Io massacro coloro che si fidano di me. Io tolgo la vita e restituisco la condizione di morti viventi. Alcuni dicono che io sia ingannata da Takhisis, e che io non mi renda conto di fare del male.”
Mina sorrise tra le lacrime, e il suo sorriso era strano e freddo. “Ma io so quello che sto facendo. Io voglio udirli cantare il mio nome, padre mio. Io voglio che adorino me: Mina! Non Takhisis. Non Chemosh. Mina. Soltanto Mina.”
Non fece alcun gesto per asciugarsi le lacrime. “Le due che mi fecero da madre sono entrambe morte fra le mie braccia. Quando Goldmoon stava morendo, mi guardò dalla penombra, e vide la verità, la bruttura dentro di me. E distolse lo sguardo da me.”
Mina si alzò in piedi e corse verso il minotauro. Si accovacciò accanto a lui ma non lo toccò. Si alzò e andò verso il punto in cui il corpo del kender giaceva sotto il mantello verde. Abbassando la mano, rimise a posto con cura un angolo che il vento aveva spostato. Gli occhi d’ambra vuoti tremolavano.
“Non posso guarirlo”, disse. Si alzò e spalancò le braccia, abbracciando i feriti e i morti, abbracciando il tempio maledetto, la valle dannata. “Io sono una divinità! Io posso fare in modo che tutto questo non sia mai successo!”
“Sì, puoi”, disse Valthonis. “Ma per farlo dovresti ritornare indietro al primo secondo del primo minuto del primo giorno e fare ripartire il tempo da lì.”
“Non capisco!” esclamò Mina, perplessa. “Tu mi parli per indovinelli.”
“Tutti noi vorremmo ricominciare se potessimo, Mina. Tutti noi vorremmo cancellare gli errori del passato. Per i mortali questo è impossibile. Noi accettiamo, noi impariamo, noi andiamo avanti. Per una divinità è possibile. Ma significa cancellare il creato e ricominciare.”