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Mina aveva l’aria ribelle, come se non gli credesse, e Valthonis temette per un attimo spaventoso che lei fosse tanto addolorata da cercare effettivamente di alleviare la propria sofferenza sprofondando se stessa e il mondo nell’oblio.

Mina cadde in ginocchio e sollevò il viso verso il cielo.

“Voi dei! Mi tirate e mi spingete in tutte le direzioni!” urlò. “Ognuno di voi mi vuole per i propri fini. A nessuno di voi interessa quello che voglio io.”

“E che cosa vuoi tu, Mina?” domandò Valthonis.

Mina si guardò attorno, come interrogandosi. Il suo sguardo andò al kender, abbattuto ed esanime sotto il mantello verde. Il suo sguardo andò a Galdar, privo di sensi, il suo amico fedele. Si rivolse a Rhys, che l’aveva confortata quando si era svegliata urlando di notte.

“Voglio tornare a dormire”, sussurrò.

A Valthonis doleva il cuore. Anche a lui le lacrime confondevano la vista e soffocavano la voce.

“Ma non posso”, disse Mina con voce rotta. “Lo so. Ci ho provato. Mi chiamano per nome e mi svegliano…”

Emise un urlo improvviso e angosciato. Le lacrime le inondarono gli occhi d’ambra, cosicché il riflesso del Dio che Cammina parve annegare.

“Falli smettere, padre mio!” implorò, dondolandosi avanti e indietro in preda al suo dolore terribile. “Falli smettere!”

Valthonis attraversò il suolo di pietra della valle di Neraka e andò a mettersi accanto alla figlia. Mina si inginocchiò davanti a lui, gli afferrò gli stivali. Valthonis la strinse e la tirò su.

“Le voci non smetteranno”, disse. “Per te, non smetteranno mai… finché tu non risponderai.”

“Ma che cosa devo dire?”

“È questo che devi decidere.”

Valthonis le porse la bisaccia che Rhys aveva trasportato per tanto tempo. Mina la osservò, perplessa. Aprendola, guardò dentro. Lì vi erano i suoi due doni, la Collana della Sedizione e la Piramide di Luce di Cristallo.

“Te li ricordi?” domandò Valthonis.

Mina scrollò il capo.

“Li hai trovati nella Sala del Sacrilegio. Volevi offrirli in dono a Goldmoon al tuo arrivo a Godshome.”

Mina fissò a lungo i due oggetti sacri, uno di tenebra divorante, l’altro di luce persistente. Li rimise dentro, con riverenza e attenzione.

“Manca tanto per arrivare a Godshome, padre mio?” domandò. “Io sono tanto stanca.”

“Non manca tanto, figliola”, rispose lui. “Ormai non manca più molto.”

8

Un dito peloso aprì a forza una palpebra di Rhys, facendolo svegliare di soprassalto, e la cosa sbigottì Galdar che quasi accecò Rhys. Il minotauro ritrasse la mano e grugnì di soddisfazione. Facendogli scivolare un braccio enorme sotto le spalle, mise Rhys a sedere e gli ficcò tra le labbra una fiala, versandogli in bocca qualche sorta di liquido dal sapore nauseante.

Gli andò di traverso, e Rhys prese a sputarlo.

“Inghiotti!” gli ordinò Galdar, assestandogli una pacca sulla schiena che lo fece tossire e gli mandò il liquido in gola.

Rhys ebbe un conato di vomito e si domandò se non fosse stato appena avvelenato.

Galdar gli sorrise, mostrando tutti i denti, e grugnì: “Il veleno ha un sapore molto più decente di questa roba. Stai seduto un attimo e lascia che faccia effetto. Ti sentirai subito meglio”.

Rhys obbedì. Non fece domande. Non si sentiva ancora abbastanza forte per rispondere. La mandibola gli doleva e gli pulsava, ma non era più fratturata. Il diaframma gli faceva male, ogni respiro era uno strazio. La pozione che gli filtrava nel corpo cominciò ad alleviare il dolore delle ferite, se non il dolore del cuore.

Galdar frattanto afferrò il muso di Atta, stringendolo forte mentre un altro minotauro in armatura da soldato, recante l’emblema di Sargas, le applicava abilmente sulla ferita una sostanza appiccicosa marrone.

“Vorresti staccarmi la mano a morsi, vero, bastardina?” disse Galdar, e Atta rispose ringhiando, facendolo ridacchiare.

Quando il minotauro ebbe concluso l’operazione, rivolse al compagno un cenno del capo. Galdar lasciò andare la cagna ed entrambi i minotauri balzarono all’indietro. Atta si alzò, piuttosto barcollante. Tenendo d’occhio con diffidenza i minotauri, andò da Rhys a farsi coccolare. Poi si spostò zoppicando fino al mantello verde. Lo annusò e lo toccò con la zampa e guardò indietro verso Rhys scodinzolando, come per dire: “Tu rimedierai a questa cosa, padrone. Lo so che rimedierai”.

“Atta, vieni”, disse Rhys.

Atta rimase dov’era. Toccò di nuovo con la zampa il mantello e piagnucolò.

“Atta, vieni”, ripeté Rhys.

Lentamente, con la testa e la coda abbassate, Atta andò zoppicando penosamente da Rhys e si stese al suo fianco. Mettendosi la testa sulle zampe, emise un profondo sospiro.

Galdar si accovacciò accanto al cadavere. Il minotauro si muoveva in maniera lenta e rigida. La pelliccia imbrattata di sangue era spalmata abbondantemente della stessa sostanza appiccicosa marrone che i suoi soldati avevano applicato ad Atta. Galdar sollevò un angolo del mantello verde e guardò verso Nightshade.

“Sargas ci ordina di onorarlo. Sarà noto fra noi come Kedir ut Sarrak.”

Rhys sorrise fra le lacrime. Sperava che lo spirito di Nightshade si fosse soffermato abbastanza a lungo nei dintorni per udire quella cosa. Voleva dire “Kender con le Corna”.

I soldati minotauri raccolsero le loro attrezzature, preparandosi a partire. Nessuno voleva rimanere in questo luogo più del necessario.

“Sei in grado di viaggiare, monaco?” domandò Galdar. “Se sì, puoi venire con noi, sei il benvenuto. Ti aiuteremo a trasportare il tuo morto e la bastardina, se non morde”, soggiunse burbero.

Rhys assentì con gratitudine.

Uno dei minotauri sollevò fra le braccia robuste il corpicino del kender. Un altro raccolse Atta. La cagna abbaiò e si oppose, ma su ordine di Rhys smise di combattere e consentì al minotauro di trasportarla, anche se ringhiava a ogni respiro.

“Desidero ringraziarti per l’aiuto…” esordì Rhys.

“Io non c’entro niente”, lo interruppe Galdar. Agitò la mano buona in direzione dei suoi soldati. “Puoi ringraziare questa banda di ammutinati. Hanno disobbedito al mio comando e sono venuti a cercarmi, anche se io avevo ordinato loro di restare indietro ad aspettarmi.”

“Sono contento che abbiano disobbedito”, disse Rhys.

“Se proprio vuoi saperlo, anch’io. Andate avanti”, disse Galdar ai suoi soldati. “Il monaco e io non possiamo camminare tanto rapidamente. Non saremo in pericolo. Ormai in questa valle rimangono soltanto gli spiriti, e non possono farci del male.”

I minotauri non parevano troppo sicuri di questo, ma fecero come ordinava Galdar, anche se non procedevano con tutta la rapidità possibile, ma si tenevano a portata di grido rispetto al loro comandante.

Galdar e Rhys camminavano assieme, entrambi zoppicando. Galdar faceva smorfie e si premeva la mano sul fianco. Il minotauro aveva un occhio gonfio e dalla base di un corno gli colava sangue. A Rhys facevano male tanto lo stomaco quanto la mandibola, il che gli rendeva difficile e dolorosa la respirazione.

“Adesso dove andrai?” domandò Rhys.

“Ritornerò a Jelek per riprendere le mie mansioni di ambasciatore presso voi umani. Dubito che tu voglia andare proprio lì”, soggiunse con un’occhiata beffarda a Rhys. “Ma io e i miei soldati non ti abbandoneremo. Rimarremo accanto a te finché non arrivano i soccorsi.”

“I soccorsi potrebbero metterci molto ad arrivare.” Rhys osservò con un sospiro.

“Credi davvero?” domandò Galdar, e sulle labbra gli balenò un sorriso. “Dovresti avere più fede, monaco.”

Rhys non aveva idea di che cosa intendesse il minotauro, ma prima che potesse domandarglielo il sorriso di Galdar svanì. Il minotauro tornò a dare un’occhiata indietro verso la valle di pietre e cristalli neri.

“Mina è andata con lui, vero? È andata via col Dio che Cammina.”