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“Spero di sì”, rispose Rhys. “Prego che sia così.”

“Io non sono granché versato nella preghiera”, disse Galdar. “E se pregassi, pregherei Sargas, e immagino che il Dio dalle Corna non si senta ben disposto nei miei confronti in questo preciso momento.”

Fece una pausa, poi soggiunse malinconicamente: “Se pregassi, pregherei perché Mina trovasse quello che cerca”.

“La perdoni per quello che ti ha fatto?” Rhys era sbalordito. I minotauri non erano noti per essere inclini al perdono. Il loro dio era Dio della Vendetta.

“Forse potresti dire che ho preso l’abitudine di perdonarla”. Galdar si strofinò il moncone del braccio, facendo una smorfia. Strano che il dolore di un braccio mancante fosse peggio del dolore delle ossa fratturate. Soggiunse, con un tono tra il vergognoso e il provocatorio: “E tu, monaco? La perdoni?”.

“Una volta percorrevo la mia strada con odio e vendetta a rodermi il cuore”, disse Rhys. Il suo sguardo andò al minotauro che trasportava il corpicino, al mantello verde che svolazzava nell’aria calma. “Non farò più così. Perdono Mina, e la mia preghiera è uguale alla tua: che trovi ciò che cerca. Anche se non sono sicuro che sia opportuno pregare per questo.”

“Perché no?”

“Qualunque cosa trovi, farà pendere la bilancia da una parte o dall’altra.”

“La bilancia può pendere nella tua direzione, monaco”, suggerì Galdar. “Ti piacerebbe, no?”

Rhys scrollò il capo. “Un uomo che fissa il sole troppo a lungo è cieco quanto colui che cammina nel buio pesto.”

I due tacquero, risparmiando il fiato per la fatica di arrampicarsi fuori dalla valle. I minotauri agli ordini di Galdar si fermarono ad attenderli fra le colline pedemontane dei Signori del Destino. I soldati avevano l’aria arcigna, poiché lì erano in attesa anche i Fedeli. Guidati dalla muta Elspeth, erano arrivati nella valle, ma troppo tardi per trovare Valthonis.

Galdar guardò accigliato gli elfi. “Avete prestato giuramento”, disse loro.

“Non abbiamo mancato alla parola data nei vostri confronti”, disse uno degli elfi. “Non abbiamo cercato di soccorrere Valthonis.”

L’elfo puntò il dito verso il mantello che ricopriva il corpo del kender. “Quello appartiene a Valthonis! E lui dov’è?” L’elfo guardò furente Galdar. “Che ne avete fatto? L’avete vigliaccamente assassinato?”

“Al contrario. Il minotauro ha salvato la vita a Valthonis”, rispose Rhys.

Gli elfi si accigliarono, increduli.

“Dubitate della mia parola?” domandò fiaccamente Rhys.

Il comandante dei Fedeli si inchinò.

“Non intendiamo offendervi, servitore di Matheri”, disse l’elfo, usando il nome elfico del dio Majere. “Ma dovete capire che troviamo difficile comprendere questa cosa. Un monaco di Matheri e un minotauro di Kinthalas se ne escono assieme dalla Valle del Male. Che sta succedendo? Valthonis è vivo?”

“È vivo e illeso.”

“E allora dov’è?”

“Sta aiutando una bambina smarrita a ritrovare la strada di casa”, rispose Rhys.

Gli elfi si guardarono l’un l’altro, perplessi, alcuni chiaramente ancora increduli. E poi la muta Elspeth si avvicinò mettendosi davanti a Galdar. Uno degli elfi cercò di bloccarla, ma lei lo respinse. Elspeth tese la mano verso il minotauro.

“Che c’è?” domandò lui, accigliandosi. “Ditele di stare lontano da me.”

Elspeth sorrise per rassicurarlo. Sotto lo sguardo teso e accigliato del minotauro, Elspeth sfiorò lievemente con le dita il moncone del braccio di Galdar.

Il minotauro sbatté gli occhi. La smorfia di dolore che gli contorceva il viso si alleviò. Galdar strinse con la mano il moncone e guardò con stupore la femmina di elfo. Elspeth gli passò accanto e andò a inginocchiarsi accanto al cadavere del kender. Gli avvolse teneramente il mantello attorno al corpo, come una madre avvolge una coperta attorno al figlio, poi raccolse il cadavere fra le braccia. Rimase lì pazientemente in attesa di partire.

Galdar diede un’occhiata a Rhys. “Te l’avevo detto che i soccorsi sarebbero arrivati.”

Gli elfi adesso erano più perplessi di prima, ma obbedirono al comando muto di Elspeth e fecero i preparativi per andarsene.

“Spero che ci onorerete con la vostra compagnia, servitore di Matheri”, disse il comandante a Rhys, il quale diede il suo assenso con gratitudine.

Galdar tese la mano sinistra, stringendo energicamente la mano di Rhys. “Addio, fratello.”

Rhys strinse la mano del minotauro fra le sue. “Che il tuo viaggio sia sicuro e rapido.”

“Sarà rapido, perlomeno”, affermò arcigno Galdar. “Più velocemente ci allontaniamo da questo luogo maledetto, meglio è.”

Sbraitò degli ordini che furono prontamente eseguiti. I soldati minotauri si allontanarono in marcia, impazienti quanto il loro comandante di lasciare Neraka.

Ma Galdar non li seguì immediatamente. Rimase fermo per un attimo, scrutando verso ovest, in profondità fra le montagne.

“Godshome”, disse. “Si trova in quella direzione.”

“Così mi è stato detto”, disse Rhys.

Galdar annuì fra sé e continuò a guardare fisso in lontananza, come cercando di cogliere qualche ultimo barlume di Mina. Sospirando, abbassò lo sguardo, scuotendo la testa munita di corna.

“Pensi che scopriremo mai che cosa sarà stato di lei, fratello?” domandò meditabondo.

“Non lo so”, rispose evasivo Rhys.

Nel suo cuore, temeva moltissimo di sì.

9

Valthonis e Mina camminavano lentamente verso Godshome, senza affannarsi, poiché ciascuno dei due sapeva che, qualunque cosa succedesse, qualunque scelta compisse Mina, questo sarebbe stato il loro ultimo viaggio assieme.

I due avevano parlato di molte cose per diverse ore, ma adesso Mina si era zittita. Godshome distava appena una quindicina di chilometri da Neraka, ma la strada era impervia, ripida, tortuosa e stretta: un sentiero desolato, disseminato di pietre, costretto a snodarsi fra ripidi pareti di canyon, obbligato da strane formazioni rocciose a condurli in direzioni che non volevano percorrere. Il cielo era buio e coperto, oscurato dagli sbuffi vaporosi dei Signori del Destino. L’aria puzzava di zolfo ed era difficile da respirare, seccava la bocca e pungeva le narici.

Mina presto si stancò. Non si lamentò, ma continuò a camminare. Valthonis le disse che poteva prendersela comoda. Non c’era fretta. “Vuoi dire che ho tutta l’eternità davanti a me?” gli disse Mina con un sorriso stentato. “È vero, padre mio, ma io mi sento obbligata ad andare avanti. Io so chi sono, ma adesso devo scoprire perché. Non riesco più a trovarmi a mio agio nella penombra.”

Portava con sé i due oggetti sacri che aveva asportato dalla Sala del Sacrilegio. Li teneva stretti in mano e non intendeva mollarli, anche se quel fardello talvolta le rendeva difficile avanzare sul sentiero ripido. Quando finalmente si arrese e si sedette per riposarsi, estrasse gli oggetti sacri dalla bisaccia e li guardò, studiandoli, prendendoli su a turno e tenendoli fra le mani, passandoci sopra le dita come avrebbe fatto un cieco che cercasse di usare le mani per vedere ciò che gli occhi senza luce non potevano cogliere. Non disse nulla a Valthonis dei suoi pensieri, e lui non fece domande.

Mentre si avvicinavano a Godshome, i Signori del Destino parvero attenuare la loro ostilità sui viandanti, approvando il loro procedere. Il sentiero si fece più agevole e li condusse giù per un lieve pendio. Una brezza calda, come un alito di primavera, soffiò via i fumi di zolfo e il vapore. Lungo il sentiero comparvero fiori selvatici, che facevano capolino da sotto i macigni o crescevano nelle fenditure di una parete di pietra.

“Che cosa c’è che non va?” domandò Valthonis, facendo una sosta, quando notò che Mina aveva cominciato a zoppicare.

“Ho una vescica”, rispose lei.

Sedendosi per terra, Mina si tolse la scarpa, guardando con irritazione quella ferita aperta e sanguinante.