Quando uscirono dall’area di servizio riscaldata il loro fiato si condensò nell’aria.
Di nuovo in marcia: campi di erba quasi marrone scorrevano dai finestrini. Gli alberi erano spogli, senza vita. Due uccelli neri li fissavano dai fili del telegrafo.
«Ehi, Wednesday.»
«Sì?»
«Secondo me non hai pagato la benzina.»
«Ah sì?»
«Secondo me è finita che è stata lei a pagare te per il privilegio di averti fatto il pieno. Credi che se ne sia accorta, dopo?»
«Non se ne accorgerà mai.»
«Ma chi sei, insomma? Un imbroglione da due soldi?»
Wednesday annuì. «Sì» disse. «Credo di sì. Insieme a molte altre cose.»
Si immise sulla corsia di sinistra per sorpassare un camion. Il cielo era di un grigio fosco e uniforme.
«Nevicherà» disse Shadow.
«Sì.»
«Senti, Sweeney me l’ha fatto vedere davvero il trucco con le monete d’oro?»
«Oh sì.»
«Non riesco a ricordarmelo.»
«Ti tornerà in mente. È stata una lunga serata.»
Qualche piccolo fiocco di neve sfiorò il parabrezza, sciogliendosi subito.
«Il corpo di tua moglie è esposto nella sala mortuaria delle Pompe funebri Wendell» disse Wednesday. «Dopo pranzo la porteranno al cimitero per la sepoltura.»
«Come fai a saperlo?»
«Ho telefonato mentre eri al cesso. Sai dove sono le Pompe funebri Wendell?»
Shadow annuì. I fiocchi di neve volteggiavano confusi.
«Questa è l’uscita» disse. L’automobile lasciò l’Interstate e superò una serie di motel diretta a Eagle Point Nord.
Erano passati tre anni. Sì. C’era qualche semaforo in più, vetrine di negozi sconosciuti. Shadow chiese a Wednesday di rallentare, quando passarono davanti alla Muscle Farm, CHIUSO FINO A DATA DA DESTINARSI recitava il cartello scritto a mano affisso sulla porta, PER LUTTO.
A sinistra sulla Main Street. Oltre il nuovo salone per tatuaggi e il Centro di reclutamento delle Forze armate, poi il Burger King e, familiare e immutato, l’Olsen’s Drug Store, infine la facciata di mattoni gialli delle Pompe funebri Wendell. Un’insegna al neon nella vetrina diceva CASA DELL’ETERNO RIPOSO. Sotto l’insegna giacevano lastre tombali senza nome e senza incisioni decorative.
Wednesday si fermò nel parcheggio.
«Vuoi che venga con te?» chiese.
«Non particolarmente.»
«Bene.» Il sorriso senza allegria comparve rapido. «Mentre tu dici i tuoi addii io mi posso occupare d’altro. Vado a fissare due stanze al Motel America. Raggiungimi, quando hai finito.»
Shadow scese dalla macchina e rimase a guardarla allontanarsi. Poi entrò. Il corridoio poco illuminato odorava di fiori e cera per mobili, con appena una nota di formaldeide. In fondo c’era la cappella dell’Eterno riposo.
Shadow si accorse che stava giocherellando con la moneta d’oro, la passava in modo convulso dal dorso al palmo e viceversa, ininterrottamente. Ne trovava rassicurante il peso.
Il nome di sua moglie era scritto su un foglio appeso alla porta in fondo. Entrò nella cappella. Conosceva quasi tutti: i colleghi di Laura, gli amici.
Lo riconobbero anche loro. Glielo si leggeva in faccia. Nessun sorriso, però, nemmeno un ciao.
In fondo alla sala c’era un piccolo palco e, sopra il palco, una bara color crema con intorno vari addobbi floreali: rossi e gialli, bianchi e viola scuro. Fece un passo avanti. Dal punto in cui si trovava vedeva il corpo di Laura. Non voleva avvicinarsi di più, però non osava andarsene.
Un uomo vestito di scuro — un dipendente delle pompe funebri, secondo Shadow — disse: «Vuole firmare il libro delle condoglianze e dei ricordi?», e gli indicò un volume rilegato in pelle aperto su un piccolo leggio.
Scrisse SHADOW e la data con la sua calligrafia precisa, poi, lentamente, aggiunse (CUCCIOLO) rinunciando ad arrivare in fondo alla sala dove c’era la gente e la bara e quella cosa dentro la bara color crema che non era più Laura.
Una donna minuscola entrò e si fermò esitante sulla porta. Aveva i capelli color rame, era tutta vestita di nero, abiti molto costosi. La vedova in gramaglie, pensò Shadow, che la conosceva bene. Era Audrey Burton, la moglie di Robbie.
Stringeva tra le mani un mazzo di violette avvolto nella carta di alluminio. Il tipo di mazzolino che una bambina potrebbe cogliere in giugno, pensò lui. Però adesso le violette erano fuori stagione.
Quando attraversò la sala per avvicinarsi alla bara Shadow la seguì.
Laura giaceva con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto. Indossava un elegante tailleur blu che lui non le aveva mai visto. I lunghi capelli castani erano pettinati ordinatamente, lontani dagli occhi. Era la sua Laura e al tempo stesso non lo era: la cosa più innaturale, pensò, era quel modo di riposare in pace, perché Laura dormiva sempre sonni agitati.
Audrey le posò le violette sul petto. Poi contrasse le labbra e le sputò con determinazione sulla faccia.
Lo sputo cadde sulla guancia e cominciò a scivolare verso l’orecchio.
Audrey si stava già avviando alla porta. Shadow la rincorse.
«Audrey?»
«Shadow? Sei scappato? O ti hanno fatto uscire?»
Lui si domandò se Audrey fosse sotto l’effetto dei tranquillanti. Parlava in tono distante, distaccato.
«Mi hanno rilasciato ieri. Sono un uomo libero. Che cosa diavolo significa, quella scena?»
In corridoio lei si fermò. «Le violette? Sono sempre state il suo fiore preferito. Una volta le raccoglievamo insieme.»
«No, non le violette.»
«Ah, quello.» disse. Si ripulì un’invisibile macchietta all’angolo della bocca. «Be’, credevo che fosse ovvio.»
«Non per me, Audrey.»
«Non te l’hanno detto?» La sua voce era fredda e calma. «Tua moglie è morta con l’uccello di mio marito in bocca.»
Shadow tornò nella sala. Qualcuno aveva già ripulito lo sputo.
Dopo pranzo — mangiò da Burger King — ci fu il funerale. La bara color crema venne interrata nel piccolo cimitero non confessionale e senza recinzione al confine della città: un prato collinare coperto di lastre tombali di granito nero e marmo bianco.
Arrivò al cimitero a bordo del carro funebre insieme alla madre di Laura. La signora McCabe sembrava credere che la morte della figlia fosse colpa di Shadow. «Se fossi stato a casa» disse, «non sarebbe successo. Non so perché ti abbia sposato. Io gliel’avevo detto. Gliel’avevo ripetuto all’infinito. Ma non si dà mai retta alla mamma, vero?» Si interruppe per guardare più da vicino la faccia del genero. «Hai fatto a botte?»
«Sì.»
«Barbaro» disse lei, poi irrigidì le labbra, alzò la testa fino a far tremare il mento e fissò dritto davanti a sé.
Shadow si stupì di vedere anche Audrey Burton al cimitero, un po’ in disparte. La breve funzione terminò e la bara venne fatta calare nella terra fredda. Tutti se ne andarono via.
Shadow si fermò lì. Rimase in piedi con le mani in tasca, a rabbrividire, a fissare la fossa.
Sopra di lui il cielo era color grigio ferro, una superficie monotona e piatta come uno specchio. Continuava a nevicare, in modo irregolare, in fiocchi spettrali.
C’era qualcosa che voleva dirle, e avrebbe aspettato il tempo necessario a capire cosa fosse. Il mondo cominciava piano piano a perdere luminosità e colore. Gli sembrava di non avere più sensibilità nei piedi, le mani e la faccia gli dolevano per il freddo. Affondò le mani nelle tasche per riscaldarle e strinse le dita intorno alla moneta d’oro.
Si avvicinò alla tomba.
«Tieni, è per te» disse.
Sul coperchio della bara era stata rovesciata qualche palata di terra, ma la fossa era tutt’altro che piena. Dopo aver gettato la moneta nella tomba buttò dentro un altro po’ di terra, per nascondere il luccichio dell’oro agli occhi di eventuali becchini ladri. Si ripulì le mani e disse: «Buona notte, Laura». Poi aggiunse: «Mi dispiace». Guardò le luci della città e si incamminò verso Eagle Point.