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Si avvicinò all’argine.

Il barcaiolo si appoggiò alla pertica e voltò lentamente la testa fino a guardare Shadow in faccia. «Salve» disse senza muovere il lungo becco. Era una voce maschile e, come tutto il resto accaduto fin lì in quella vita dopo la morte, familiare.

«Sali a bordo. Ho paura che ti bagnerai i piedi, succede sempre. È una vecchia imbarcazione. Se vengo più vicino rischio di sventrarla.»

Shadow si sfilò le scarpe ed entrò in acqua. Gli arrivava a metà polpaccio e dopo l’iniziale stupore la trovò sorprendentemente calda. Quando il barcaiolo gli tese una mano per aiutarlo a salire, lo scafo ondeggiò un po’ imbarcando acqua dalle basse fiancate laterali, poi si stabilizzò. L’uomo usò la pertica per allontanarsi da riva. Shadow rimase a guardare senza far niente, con i pantaloni fradici.

«Io ti conosco» disse alla creatura a prua.

«Senza dubbio» rispose il barcaiolo. La lampada a olio appesa alla prora emanava una luce tremula e il fumo faceva tossire Shadow. «Hai lavorato per me. Mi dispiace, abbiamo dovuto seppellire Lila Goodchild senza il tuo aiuto.» Era una vocetta pignola e irascibile.

Il fumo gli pungeva gli occhi. Shadow si asciugò le lacrime con la mano e attraverso il fumo intravide un uomo alto vestito di scuro, con gli occhiali dalla montatura d’oro. Quando il fumo si dissolse, il barcaiolo era di nuovo una creatura mezzo umana con la testa di un uccello di fiume.

«Il signor Ibis?»

«Sono contento di rivederti» disse la creatura con la voce di Ibis. «Sai che cos’è uno psicopompo?»

A Shadow sembrava di aver sentito quella parola, tanto tempo prima. Scosse la testa.

«È un termine colto per dire guida» spiegò il signor Ibis. «Vedi, noi abbiamo tante funzioni, tanti modi di esistere. Nella visione che io ho di me stesso, per esempio, sono uno studioso che vive appartato, scrive le sue storielle e sogna un passato che forse è esistito o forse no. Ed è così. Tuttavia, come molte delle persone con cui hai scelto di associarti in questo viaggio, svolgo anche la funzione di psicopompo. Scorto i vivi nel regno dei morti.»

«Pensavo di essere già nel regno dei morti» disse Shadow.

«No. Non ancora. Siamo in una fase preliminare.»

L’imbarcazione scivolava sulla superficie immobile dell’acqua sotterranea. Poi, senza muovere il becco, il signor Ibis continuò: «Voi parlate di vivi e morti come se si trattasse di due categorie che si escludono a vicenda, come se non si potesse avere un fiume che è anche strada, o una canzone che è anche colore».

«Infatti non si può» disse Shadow. «Vero?» Dall’altra sponda l’eco rimandava le sue parole in un sussurro.

«Devi ricordare» riprese il puntiglioso signor Ibis «che la vita e la morte sono due facce della stessa medaglia. Come testa e croce sulla moneta.»

«E se avessi una moneta truccata?»

«Non ce l’hai.»

Shadow rabbrividì. Poi, mentre attraversavano l’acqua scura, rivide le facce dei bambini che lo fissavano con aria di rimprovero: erano facce sature d’acqua, molli, con gli occhi ciechi, vitrei. Nella caverna sotterranea nessun vento increspava la nera superficie del lago.

«Sono morto, allora?» domandò Shadow. Si stava abituando all’idea. «Oppure morirò tra poco?»

«Siamo diretti alla Casa dei Morti. Ho espressamente richiesto di poterti accompagnare io.»

«Perché?»

«Sei un buon lavoratore. Perché no?»

«Perché…» Shadow cercò di mettere ordine nei pensieri. «Perché non ho mai creduto in voi. Perché non so niente della mitologia egizia. Perché non me l’aspettavo. Che cosa è successo a San Pietro e alle porte del Paradiso?»

La testa bianca dal lungo becco si mosse con gravita da un lato all’altro. «Il fatto che tu non credessi in noi non ha alcuna importanza» rispose il signor Ibis. «Noi abbiamo creduto in te.»

L’imbarcazione arrivò all’argine. Il signor Ibis scese in acqua e invitò Shadow a fare altrettanto. Dalla prua prese una cima e passò a Shadow la lanterna che aveva la forma di una luna crescente. Si arrampicarono sull’argine, dove il signor Ibis legò l’imbarcazione all’anello di metallo piantato nella roccia, poi prese la lampada e si incamminò agilmente. La teneva così alta da gettare grandi ombre per terra e sulle pareti di pietra.

«Hai paura?» gli domandò.

«Non esattamente.»

«Bene, cerca di coltivare sentimenti di sincero rispetto e terrore spirituale, mentre camminiamo, perché sono i più adeguati alla circostanza.»

Shadow non aveva paura. Era interessato, apprensivo, nient’altro. Non lo spaventava l’oscurità in movimento, né il fatto d’essere morto, non provò paura nemmeno davanti alla creatura con la testa di cane e grande come un silo di grano che li fissava. Però quando emise un profondo ruggito a Shadow si rizzarono i peli sul collo.

«Shadow» gli disse la creatura. «È giunto il tempo del giudizio.»

Shadow guardò verso l’alto. «Signor Jacquel?» chiamò.

Le mani di Anubi discesero, enormi e scure, afferrarono la testa di Shadow e l’avvicinarono alla sua.

Lo sciacallo lo studiò con occhi luminosi e scintillanti; lo esaminò con il distacco con cui il signor Jacquel aveva esaminato la ragazza morta sul tavolo. Shadow sapeva che gli stava estraendo tutte le colpe, gli sbagli, le debolezze, che li stava soppesando e misurando; che in un certo senso stava per essere sezionato, affettato e infine assaggiato.

Non sempre ricordiamo gli atti che non ci fanno onore. Li giustifichiamo, li ammantiamo di bugie o li seppelliamo sotto il pesante coperchio della rimozione. Tutte le cose che Shadow aveva fatto nella vita e di cui non andava fiero, tutte le cose che rimpiangeva di non aver fatto diversamente o di non aver fatto per niente, gli si presentarono davanti in un vortice di colpa e rimpianto e vergogna che non lasciava scampo. Era nudo e aperto come un cadavere sul tavolo del laboratorio, e l’oscuro Anubi, il dio sciacallo, era il suo prosettore, il suo accusatore, il suo giudice.

«Ti prego» disse Shadow. «Basta, ti prego.»

L’esame non era finito. Ogni bugia, ogni oggetto rubato, ogni ferita inflitta a un altro, tutti i piccoli crimini e i piccoli omicidi che si commettono in una giornata normale, ognuna di quelle piccole cose e altro ancora venne estratto da lui e portato alla luce dalla creatura con la testa di sciacallo, giudice dei morti.

Shadow cominciò a piangere con singhiozzi dolorosi, in piedi sul palmo scuro del dio. Era tornato bambino, debole e impotente come sempre.

Poi, senza preavviso, tutto finì. Shadow ansimava, continuando a singhiozzare, con il naso gocciolante; si sentiva ancora impotente, ma le mani lo riappoggiarono con cautela, quasi con tenerezza, sul pavimento roccioso.

«Chi ha il suo cuore?» ruggì Anubi.

«L’ho io» rispose una sorniona voce femminile. Shadow guardò in su. C’era Bast in piedi accanto alla creatura che non era più il signor Ibis, e teneva il suo cuore nella mano destra. Le illuminava il volto con una luce color rubino.

«Dallo a me» disse Thoth, il dio con la testa di ibis, prendendo il cuore tra le sue mani — non erano mani umane — e scivolando in avanti.

Anubi gli presentò una bilancia con due piatti.

«Allora è qui che verrò a sapere cosa mi aspetta?» sussurrò Shadow a Bast. «Paradiso, Inferno o Purgatorio?»

«Se la piuma è altrettanto pesante» rispose lei, «potrai sceglierti da solo la tua destinazione.»

«E se non lo è?»

Lei scrollò le spalle come se l’argomento la mettesse a disagio. Poi disse: «Allora daremo il cuore e l’anima in pasto ad Ammet, mangiatore di anime…».

«Forse» disse lui «c’è la possibilità di un lieto fine.»

«Non solo non esiste lieto fine» ribatté lei, «ma non c’è neanche una fine.»