Continuarono ad arrivare. Si fermò anche un taxi da cui scesero parecchi rakshasa, i demoni del subcontinente indiano. Si misero subito a gironzolare fissando tutti in silenzio fino a quando non trovarono Mama-ji, che a occhi chiusi muoveva le labbra come in preghiera. Era l’unica con qualcosa di familiare, tuttavia, ricordando le antiche battaglie, esitarono ad avvicinarla. Lei accarezzò la collana di teschi intorno al collo e la sua pelle scura a poco a poco diventò nera, nera come il giaietto, lucida come l’ossidiana: aveva tirato le labbra mostrando i denti bianchi e molto aguzzi. Aprì tutti i suoi occhi e accolse i rakshasa come figli.
I temporali scoppiati negli ultimi giorni a nord e a est non avevano allentato la pressione e il senso di disagio che aleggiava nell’aria. I meteorologi locali annunciavano la presenza di perturbazioni capaci di generare tornado, e zone stabili di alta pressione. Di giorno faceva abbastanza caldo, ma le notti erano fredde.
Si raggrupparono spontaneamente in base alle nazionalità, a volte alla razza, al temperamento, perfino in base alla specie. Sembravano in apprensione, sembravano stanchi.
Qualcuno parlava. Ogni tanto si sentiva una risata sporadica, subito soffocata. Circolavano confezioni di birra da sei.
Vennero in quei prati anche alcuni uomini e donne del posto, con i corpi che si muovevano in modo strano: le loro voci, quando parlavano, erano quelle del loa che li possedeva: un uomo di colore alto parlava con la voce di Papa Legba che apre i cancelli, mentre Baron Samedi, il signore della morte voudón, aveva preso possesso del corpo di un’adolescente metallara di Chattanooga, probabilmente per via di quel cappello a cilindro di seta nera che portava spavaldamente in testa. La ragazza parlava con la voce profonda del Baron, fumava un sigaro di dimensioni enormi e impartiva ordini a tre gedé, i loa dei morti. I gedé abitavano i corpi di tre fratelli di mezza età armati di fucili, raccontavano storielle talmente sconce che erano i soli disposti a riderne, e lo facevano sguaiatamente.
Due donne chickamauga con i blue jeans unti d’olio e malconce giacche di pelle si aggiravano osservando la gente e i preparativi per la battaglia. A volte indicavano qualcuno o qualcosa e scuotevano la testa. Non intendevano prendere parte al conflitto imminente.
La luna spuntò a oriente, al suo quattordicesimo giorno. Era grande come metà del cielo, quasi rossa, proprio sopra le montagne. Mentre l’attraversava sembrò rimpicciolirsi e impallidire fino a rimanere sospesa in alto in alto come una lanterna.
Erano in tantissimi ad aspettare, al chiaro di luna, alle pendici della montagna.
Laura aveva sete.
A volte i vivi bruciavano nella sua mente in modo costante, come le fiamme delle candele, altre volte fiammeggiavano come torce. Ciò rendeva più facile evitarli, e quando serviva, più facile reperirli. Shadow bruciava in un modo così strano, con una luce tutta sua, su quell’albero. Una volta lo aveva rimproverato, mentre camminavano tenendosi per mano, per il fatto di non essere vivo. Aveva sperato di cogliere una scintilla di emozione, di vedere qualcosa.
Ricordava che camminandogli accanto si era augurata che capisse cosa stava cercando di dirgli.
Morendo su quell’albero Shadow era stato straordinariamente vivo.
Lo aveva osservato bene, mentre la vita lo abbandonava: era concentrato, reale. E le aveva chiesto di restare con lui, di passare la notte con lui. L’aveva perdonata… forse l’aveva perdonata. Non era importante. Shadow era cambiato, di questo poteva dirsi sicura.
Le aveva detto di andare alla fattoria, dove le avrebbero dato da bere. Era tutto spento e sembrava che dentro non ci fosse nessuno, però Shadow aveva detto che le donne si sarebbero prese cura di lei, quindi spinse la porta tra le proteste dei cardini arrugginiti. Qualcosa nel suo polmone sinistro si mosse, qualcosa che spingeva e si contorceva e le provocava la tosse.
Si ritrovò in uno stretto corridoio bloccato da un grande pianoforte polveroso. L’odore di umidità era intenso e stantio. Riuscì a passare infilandosi tra pianoforte e muro, aprì un’altra porta ed entrò in un soggiorno in rovina, zeppo di mobili rotti. Sulla mensola del camino bruciava una lampada a olio. C’era un fuoco di carbone acceso, benché dall’esterno lei non avesse visto il fumo né sentito l’odore. Il fuoco non riusciva a riscaldare la stanza gelata, ma Laura era pronta a riconoscere che non fosse colpa della stanza.
La morte le procurava una sofferenza che consisteva soprattutto di assenze: aveva sempre sete, un’arsura che le bruciava le cellule, nelle ossa un’assenza di calore assoluta. A volte si chiedeva se le fiamme scoppiettanti di una pira, o la soffice coltre scura della terra, non avrebbero potuto riscaldarla, se il freddo mare non sarebbe magari riuscito a dissetarla…
Si rese conto che la stanza non era disabitata. Sul vetusto sofà c’erano tre donne sedute come in uno strano allestimento in una galleria d’arte. Era un vecchio divano rivestito di velluto consunto, di un colore marrone che un tempo, centinaia di anni prima, doveva essere stato un vivace giallo canarino. Le donne seguirono con gli occhi l’ingresso di Laura senza dire niente.
Laura non si era aspettata di trovarle.
Qualche cosa si dimenò e le cadde nella cavità nasale. Cercò il fazzolettino di carta infilato nella manica e si soffiò il naso. Poi lo appallottolò e lo gettò nel fuoco con ciò che conteneva, restò a guardarlo mentre si accartocciava, anneriva e diventava una trina arancione. Guardò il verme che bruciava.
Poi si girò verso le donne sul divano che non avevano ancora mosso un muscolo né un capello. La fissavano e basta.
«Buon giorno. Questa è la vostra fattoria?» chiese.
La più alta delle tre annuì. Aveva le mani molto rosse e un’espressione impenetrabile.
«Shadow… l’uomo appeso all’albero… è mio marito… mi ha detto di dirvi di darmi un po’ d’acqua.» Qualcosa di enorme le si mosse nelle viscere, si contorse e poi tornò immobile.
La donna più piccola, che da seduta non arrivava a toccare con i piedi per terra, scese dal divano e uscì di corsa dalla stanza.
Laura sentì porte che si aprivano e chiudevano, e da fuori arrivarono degli scricchiolii, ognuno seguito da uno splash.
Di lì a poco la piccola donna ritornò. Portava con sé una brocca di coccio piena d’acqua che posò con attenzione sul tavolo. Poi si ritirò verso il divano. Si issò a fatica sul sofà e sedette accanto alle sorelle come prima.
«Grazie.» Laura si avvicinò al tavolo, si guardò intorno in cerca di una tazza o di un bicchiere, e non vedendoli afferrò la brocca. Era più pesante del previsto e conteneva un’acqua perfettamente limpida.
L’avvicinò alle labbra e cominciò a bere.
Era fredda come ghiaccio. Le gelò la lingua, i denti e l’esofago. Comunque lei continuò a berla, incapace di smettere, sentendosi gelare lo stomaco, le viscere, il cuore, le vene.
Scorreva dentro di lei come ghiaccio liquido.
Quando si rese conto con sorpresa che la brocca era vuota, la riappoggiò sul tavolo.
Le donne la osservavano con distacco. Dal giorno della sua morte Laura aveva smesso di pensare per metafore: le cose erano o non erano. Ma adesso, guardando le tre sorelle sul divano, pensò a una giuria, a tre scienziati che esaminavano una cavia da laboratorio.
All’improvviso fu scossa da un brivido convulso. Tese una mano verso il tavolo per sostenersi, ma il tavolo scivolò via tutto storto e quasi le sfuggì. Quando riuscì ad appoggiare la mano cominciò a vomitare. Vomitò bile e formalina, centopiedi e vermi. E poi iniziò a defecare e urinare: il suo corpo si svuotava con violenza. Avrebbe urlato, se avesse potuto, ma a quel punto le tavole polverose del pavimento le vennero incontro talmente in fretta e con tanta durezza che, se avesse respirato, le avrebbero mozzato il respiro di colpo.