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«Shadow? Se lo vedi evitalo. Non toccarlo. Non perdere tempo nemmeno a dargli una lezione. Non voglio che diventi un martire. Nello schema di gioco attuale non c’è posto per i martiri.» Sorrise, il solito sorriso sfregiato. Il signor World si divertiva con niente. Town lo aveva notato più di una volta. Lo aveva divertito interpretare la parte dell’autista in Kansas, dopotutto.

«Senta…»

«Niente martiri, Town.»

Town aveva annuito e, preso il coltello, aveva ingoiato la rabbia che gli montava dentro.

L’odio che Town provava per Shadow era ormai diventato parte di lui. Prima di addormentarsi vedeva la sua faccia solenne, il suo sorriso che non era proprio un sorriso, quel modo che Shadow aveva di sorridere senza sorridere e che a lui faceva venire la voglia di tirargli un pugno nella pancia, e anche mentre si addormentava sentiva di stringere le mascelle, le tempie che pulsavano, la gola che bruciava.

Percorse il prato, superò una fattoria abbandonata. Oltre il dosso vide l’albero. Parcheggiò e spense il motore. L’orologio del cruscotto segnava le sei e trentotto minuti. Lasciò le chiavi nel quadro e si avvicinò all’albero.

Era un grande albero. Le sue proporzioni sfuggivano a ogni scala di valori: Town non avrebbe saputo dire se era alto tre o venti metri. Aveva una corteccia grigia e levigata come una sciarpa di seta.

Al tronco era legato un uomo nudo, poco sollevato da terra, sostenuto da un reticolo di funi, e ai piedi dell’albero c’era qualcosa avvolto in un lenzuolo. Passandogli accanto Town spostò il lenzuolo con un piede e capì di cosa si trattava. La parte devastata della faccia di Wednesday lo guardò.

Town raggiunse l’albero, gli fece un giro intorno, allontanandosi dagli occhi chiusi della fattoria, poi abbassò la cerniera dei pantaloni e pisciò contro il grande tronco. Tirò su la cerniera. Ritornò verso la fattoria, trovò una scala a pioli allungabile, la portò vicino all’albero. Dopo averla appoggiata con cura al tronco si arrampicò.

Shadow era inerte, completamente abbandonato alle corde. Town si chiese se fosse vivo: il petto non si alzava e non si abbassava. Morto o quasi morto, non era importante.

«Ciao, pezzo di merda» gli disse a voce alta. Shadow non si mosse.

Town arrivò in cima alla scala e tirò fuori il coltello. Trovò un rametto che sembrava corrispondere alle richieste del signor World e cominciò a tagliarlo, poi finì di staccarlo spezzandolo con le mani. Era lungo circa sessanta centimetri.

Ripose il coltello nel fodero e cominciò a scendere. Quando si trovò proprio all’altezza di Shadow si fermò. «Dio come ti odio» disse. Gli sarebbe tanto piaciuto poter tirar fuori la pistola e sparargli, ma sapeva di non poterlo fare. Allora fece un movimento nell’aria con il bastone, come per colpire l’uomo appeso, un gesto istintivo che esprimeva tutta la sua frustrazione e la sua rabbia. Immaginò di avere in mano una lancia e di conficcargliela in un fianco.

«Andiamo» disse a voce alta. «È ora di tornare.» Poi pensò: primo sintomo di pazzia, quando si parla da soli. Fece ancora qualche gradino e saltò a terra con un balzo. Guardando il bastone che stringeva in mano si sentì come un ragazzino che gioca fingendo di avere una spada, o una lancia. Avrei potuto tagliare un ramo da un albero qualsiasi, pensò. Non doveva per forza essere questo. Chi cazzo se ne sarebbe accorto?

Poi pensò: il signor World se ne sarebbe accorto.

Riportò la scala alla fattoria e con la coda dell’occhio ebbe l’impressione di vedere qualcosa muoversi. Guardò dalla finestra: vide una stanza buia piena di mobili rotti, con l’intonaco cadente, e per un momento immaginò, come in sogno, di vedere tre donne sedute sul divano, al buio.

Una di loro stava lavorando a maglia. Una fissava proprio lui. Una sembrava addormentata. La donna che lo stava fissando gli sorrise, un sorriso enorme che sembrava tagliare la sua faccia in due, un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Poi alzò un dito, lo avvicinò al collo, lo appoggiò e lo fece scorrere delicatamente fino al lato opposto.

Questo aveva creduto di vedere nella stanza deserta che a una seconda occhiata sembrava contenere invece soltanto mobili rovinati e un pavimento coperto di polvere e sudiciume secco. Lì dentro non c’era nessuno.

Si sfregò gli occhi.

Tornò alla Ford Explorer e salì. Gettò il bastone sul sedile rivestito di pelle bianca accanto al suo e mise in moto. L’orologio sul cruscotto segnava le sei e trentasette. Town si accigliò e controllò l’orologio digitale da polso: le tredici e cinquantotto.

Fantastico, pensò. O sono stato su quell’albero per otto ore oppure ho fatto un viaggio di un minuto all’indietro nel tempo. Pensò questo, ma credendo in realtà che per qualche strana coincidenza i due orologi avessero entrambi smesso di funzionare.

Sull’albero, il corpo di Shadow cominciò a sanguinare. Dalla ferita nel fianco sgorgava sangue denso e scuro come melassa.

La cima di Lookout Mountain era coperta di nuvole.

Easter sedeva a una certa distanza dalla folla alle pendici della montagna e osservava l’alba illuminare le montagne a oriente. Aveva una catenella di nontiscordardime tatuati sul polso sinistro e li accarezzava distrattamente con il pollice della mano destra.

Un’altra notte era finita e non era successo niente. Continuavano ad arrivare, da soli o a coppie. La notte precedente aveva portato parecchie creature dal Sudovest, compresi due ragazzini grandi come un melo, e qualcosa a cui lei aveva dato soltanto un’occhiata ma che le era sembrata una testa disincarnata grande come un Maggiolino Volkswagen. Erano spariti negli alberi ai piedi della montagna.

Nessuno li disturbava. Nessuno dal mondo esterno sembrava notare la loro presenza: immaginava i turisti di Rock City che attraverso il binocolo da un quarto di dollaro fissavano quel caotico accampamento di cose e persone ai piedi della montagna senza vedere altro che alberi, arbusti e rocce.

Sentì l’odore di fumo e pancetta bruciata portati dal vento freddo dell’alba. Qualcuno in fondo all’accampamento cominciò a suonare l’armonica e la cosa la fece sorridere e rabbrividire. Nello zaino aveva un libro tascabile e aspettava che in cielo ci fosse abbastanza luce per poter leggere.

Appena sotto le nuvole vide due puntini: uno piccolo e uno un po’ più grande. Qualche goccia di pioggia le sfiorò il viso nel vento del mattino.

Una ragazza scalza sbucò dall’accampamento e venne verso di lei. Vicino a un albero si fermò, e raccolte le gonne si accovacciò. Quand’ebbe finito, Easter la chiamò.

La ragazza si avvicinò.

«Buongiorno, signora» disse. «La battaglia comincerà tra poco.»

Si sfiorò le labbra scarlatte con la lingua rosea. Portava sulla spalla un’ala di corvo nera legata a una cinghia di cuoio e una zampa di corvo appesa a una catena intorno al collo. Sulle braccia aveva tatuati ghirigori e nodi intricati.

«Come lo sai?»

La ragazza sorrise. «Sono Macha, delle Morrigan. Quando scoppia la guerra la sento nell’aria. Sono una dea della guerra e dico che oggi scorrerà il sangue.»

«Oh» disse Easter. «Bene, eccoci qua.» Stava osservando il puntino più piccolo che rotolava giù dal cielo come una pietra.

«Combatteremo e li uccideremo, a uno a uno» riprese la ragazza. «E prenderemo le loro teste come trofei e i corvi mangeranno i loro occhi e i cadaveri.» Il puntolino era diventato un uccello con le ali spiegate che volava sui venti tempestosi del mattino.

Easter piegò la testa. «È un sapere segreto di dea?» chiese. «Questa sicurezza su chi saranno i vincitori? Su chi prenderà le teste come trofeo?»

«No» rispose la ragazza. «Sento l’odore della battaglia, nient’altro. Comunque vinceremo, non è vero? Dobbiamo vincere. Ho visto quello che hanno fatto al Padre Universale. O loro o noi.»