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Il motel si trovava ad almeno tre chilometri di strada, ma dopo tre anni in prigione Shadow era attratto dall’idea di poter camminare liberamente, anche per sempre, se avesse voluto. Avrebbe potuto continuare a camminare verso nord, fino in Alaska, oppure dirigersi a sud, fino al Messico o ancora più in là. Volendo sarebbe potuto arrivare in Patagonia o nella Terra del Fuoco.

Si avvicinò una macchina. Il finestrino si abbassò.

«Vuoi un passaggio?» chiese Audrey Burton.

«No. E non da te.»

Proseguì. Audrey gli si affiancò, procedendo a sei chilometri all’ora. I fiocchi di neve cadevano danzando tra i raggi di luce dei fanali.

«Credevo che fosse la mia migliore amica» disse Audrey. «Ci sentivamo tutti i giorni. Quando io e Robbie litigavamo lei era la prima a saperlo… andavamo da Chi-Chi a bere un margarita e a raccontarci quanto sono canaglie gli uomini. E intanto alle mie spalle se lo scopava.»

«Vai via, per favore.»

«Volevo solo spiegarti che avevo le mie buone ragioni per fare quello che ho fatto.»

Shadow non rispose.

«Ehi!» gridò Audrey. «Ehi! Sto parlando con te!»

Lui si voltò. «Vuoi che ti dica che hai fatto bene a sputarle in faccia? Vuoi che ti dica che non mi ha ferito? Oppure dovrei dirti che le tue parole mi fanno provare più odio che nostalgia per mia moglie? Non te lo dirò mai, Audrey.»

Lei continuò a procedere a passo d’uomo per un minuto, senza parlare, poi disse: «Allora, com’era la prigione?».

«Non male. Ti ci saresti sentita a casa.»

A quel punto Audrey schiacciò il pedale dell’acceleratore e con un rombo del motore si allontanò.

Una volta spariti i fari dell’automobile il mondo diventò buio, mentre il crepuscolo cedeva alla tenebra. Shadow continuava a sperare di riscaldarsi, camminando, di sentir arrivare il calore fino alle mani e ai piedi gelati, ma era sempre più intirizzito.

Ancora in prigione, Low Key Lyesmith un giorno si era riferito al piccolo cimitero carcerario dietro l’infermeria come all’Orto delle Ossa, e l’immagine aveva messo radici dentro Shadow. Quella notte aveva sognato un orto sotto la luna, scheletrici alberi bianchi, con i rami che terminavano in mani scarnificate, le radici affondate nelle tombe. Crescevano frutti su quegli alberi nell’Orto delle Ossa, nel sogno, e c’era qualcosa che lo inquietava in quei frutti onirici, ma al risveglio non era riuscito a ricordare di che cosa si trattasse esattamente, né del perché li avesse trovati tanto repellenti.

Le automobili gli passavano accanto. Avrebbe preferito camminare su un marciapiede. Inciampò in qualcosa che non aveva visto a causa dell’oscurità e finì nel fossato, la mano destra che affondava nel fango freddo per parecchi centimetri. Si rialzò e si ripulì le mani sui pantaloni. Rimase lì in piedi, a disagio. Fece appena in tempo a rendersi conto di non essere solo e di una cosa bagnata che gli veniva premuta contro naso e bocca; sentì un odore acre, chimico.

Questa volta il fossato gli sembrò tiepido, e comodo.

L’impressione era che le tempie gli fossero state riattaccate al cranio con dei grossi chiodi. Aveva le mani legate dietro la schiena con un laccio ed era seduto sul sedile rivestito di pelle di un’automobile. Per un istante si chiese se non ci fosse qualcosa che non andava nella sua percezione della distanza e poi capì che no, l’altro sedile era davvero molto lontano.

C’era qualcuno dietro di lui, ma non era in grado di girarsi a guardare.

Il giovanotto grasso all’altra estremità della lunga limousine prese dal bar una lattina di Diet Coke e l’aprì. Indossava una lunga giacca nera di un materiale setoso e non dimostrava nemmeno vent’anni: su una guancia c’era addirittura un accenno d’acne. Sorrise, vedendo che Shadow si era svegliato.

«Ciao, Shadow» disse. «Non fare il furbo con me.»

«Va bene. D’accordo. Mi puoi lasciare al Motel America sull’Interstate?»

«Colpiscilo» disse il giovanotto alla persona seduta a sinistra di Shadow. Shadow ricevette un pugno nel plesso solare che gli tolse il respiro e lo fece piegare in due. Si raddrizzò lentamente.

«Ti ho detto di non fare il furbo. Quello era fare il furbo. Rispondi con poche parole e a tono, altrimenti ti ammazzo. O magari no. Magari dico ai ragazzi di spaccarti le ossa a una a una. Ne hai duecentosei. Quindi non fare il furbo.»

«Ricevuto» disse Shadow.

Le luci dentro la limousine cambiarono dal viola all’azzurro e poi dal verde al giallo.

«Tu lavori per Wednesday» disse il giovanotto.

«Sì.»

«Che cosa cazzo vuole? Cioè, che cosa ci fa qui? Deve avere uno schema. Qual è lo schema del gioco?»

«Ho cominciato a lavorare per il signor Wednesday stamattina» rispose Shadow. «Sono il suo uomo di fatica.»

«Stai dicendo che non sai niente?»

«Esatto.»

Il ragazzo aprì la giacca e dalla tasca interna prese un portasigarette d’argento. Lo aprì e offrì a Shadow una sigaretta. «Fumi?»

Shadow pensò di chiedergli di liberargli le mani, poi decise di non farlo. «No, grazie.»

Era una sigaretta fatta a mano, e quando il ragazzo l’accese con uno Zippo nero satinato, l’odore che sprigionò assomigliava a quello di fili elettrici bruciati.

Il giovanotto inspirò profondamente e trattenne il fumo nei polmoni. Lo lasciò uscire dalla bocca e lo inspirò di nuovo dal naso. Shadow sospettava che prima di eseguire quel numero in pubblico si fosse esercitato parecchio davanti allo specchio. «Se mi hai mentito» disse come da molto lontano «ti ammazzo, cazzo. Lo sai.»

«Sì, me l’hai detto.»

Il ragazzo fece un altro lungo tiro dalla sigaretta. «Dici che stai al Motel America?» Picchiò sul vetro che separava l’abitacolo dall’autista. Il vetro si abbassò. «Ehi. Al Motel America, su all’Interstate. Dobbiamo accompagnare il nostro ospite.»

L’autista annuì e il vetro venne rialzato.

Le luci a fibre ottiche dentro la limousine cambiavano colore ciclicamente passando per tutte le gamme più tenui della tavolozza. A Shadow sembrava che scintillassero anche gli occhi del giovane, verdi come i monitor dei vecchi computer.

«Di’ a Wednesday questo, amico. Digli che è un dinosauro. Vecchio. Superato. Dimenticato. Digli che il futuro siamo noi e che non ce ne frega niente né di lui né dei suoi simili. È stato consegnato alla discarica della storia mentre quelli come me viaggiano a bordo di limousine lungo le superautostrade del futuro.»

«Riferirò» disse Shadow. Cominciava a girargli la testa. Si augurava di non vomitare.

«Digli che abbiamo riprogrammato la realtà. Digli che il linguaggio è un virus, la religione un sistema operativo e le preghiere sono junk mail. Diglielo altrimenti ti ammazzo» disse dolcemente dalla sua nuvola di fumo.

«Ricevuto» rispose Shadow. «Puoi farmi scendere qui. Cammino volentieri.»

Il giovane annuì. «Parlare con te è stato un piacere» disse. Il fumo lo aveva addolcito. «Voglio che tu sappia che se ti ammazziamo ti cancelliamo. Hai capito? Un clic e al tuo posto si possono scrivere a caso degli uno e degli zero. Il ripristino del testo non è possibile.» Picchiò sul vetro: «Scende qua». Poi si rivolse a Shadow e indicò la sigaretta che stava fumando. «Pelle di rospo sintetica. Lo sapevi che adesso si può sintetizzare la bufotenina?»

L’automobile si fermò e qualcuno aprì la portiera. Shadow scese goffamente. Gli vennero tagliati i lacci intorno ai polsi. Quando si voltò vide che l’abitacolo della limousine era diventato una nuvola vorticante di fumo in cui brillavano due luci color rame, come i begli occhi di un rospo. «Il problema è il paradigma dominante, Shadow. Nient’altro conta. E, a proposito, ho sentito della tua signora, mi dispiace.»