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Un ciclope dalla pelle grigia con un enorme smeraldo al posto dell’occhio avanzava a passo rigido precedendo alcuni uomini tozzi dalla carnagione scura, i volti impassibili e regolari come nelle incisioni azteche: uomini che conoscevano i segreti inghiottiti dalla giungla.

Un cecchino appostato sulla vetta prese la mira con calma e sparò sulla volpe bianca. Ci fu un’esplosione, una nuvoletta di cordite, l’odore della polvere da sparo si diffuse nell’aria umida. Il cadavere era quello di una giovane donna giapponese con la pancia sventrata, la faccia tutta coperta di sangue. Piano piano il cadavere svanì.

La gente continuava ad arrampicarsi sulla montagna a due zampe, a quattro zampe, senza zampe.

Il viaggio attraverso il territorio montagnoso del Tennessee era stato bello da mozzare il fiato quando non c’era il temporale e sfinente quando la pioggia scrosciava violenta. Town e Laura avevano chiacchierato per tutto il tragitto. Lui era incredibilmente felice di averla incontrata. Era come aver ritrovato un’amica, una vecchia amica molto amata e non più incontrata da anni. Avevano parlato di storia, di cinema, di musica, e si era scoperto che Laura era l’unica oltre a lui ad aver visto un film straniero degli anni Settanta (Town era sicuro che fosse spagnolo, mentre lei diceva polacco) intitolato Il manoscritto trovato a Saragozza, un film che Town cominciava a credere di aver sognato.

Quando Laura indicò il primo fienile con la scritta VISITATE ROCK CITY lui ridacchiò e ammise di essere diretto proprio lì. Lei disse: fantastico, aveva tanto desiderato visitare uno di quei posti, non ne aveva mai avuto il tempo e se n’era sempre rammaricata. Per questo adesso era in viaggio, per vivere un’avventura.

Lavorava in un’agenzia di viaggi, gli raccontò, era separata dal marito. Ammise di ritenere che non sarebbero più tornati assieme, e aggiunse che la colpa era sua.

«Non posso crederci.»

Lei sospirò. «È vero, Mack, non sono più la donna che aveva sposato.»

Be’, le disse lui, la gente cambia, e prima di rendersi conto che le stava ormai raccontando proprio tutto della sua vita, attaccò a parlare di Woody e Stone, di come insieme venivano chiamavati i tre moschettieri, e che gli altri due erano stati uccisi. Uno penserebbe che lavorando per il governo ci si dovrebbe abituare ai morti ammazzati, invece non ci si abitua mai.

E lei allungò una mano — talmente fredda che Town alzò il riscaldamento — e gli strinse forte la sua.

All’ora di pranzo si fermarono a mangiare del cattivo cibo giapponese mentre il temporale incombeva pesante su Knoxville, e a Town non dispiacque per niente che il servizio fosse lentissimo, la zuppa di miso fredda, il sushi tiepido.

Era felice che Laura avesse deciso di vivere la sua avventura proprio con lui.

«Be’» gli confidò lei, «detestavo l’idea di marcire, e lì dov’ero stavo proprio ammuffendo. Così sono partita senza macchina, senza carte di credito. Posso contare soltanto sulla gentilezza degli sconosciuti.»

«Non hai paura? Potresti finire nei guai, essere aggredita o morire di fame.»

Lei scosse la testa, poi disse con un sorriso esitante: «Però ho incontrato te, vero?». E lui non riuscì a trovare niente da obiettare.

Finito di mangiare corsero sotto il temporale fino all’automobile riparandosi la testa con dei giornali giapponesi e correndo ridevano, come bambini nella pioggia.

«Fin dove ti posso portare?» chiese lui quando furono di nuovo in macchina.

«Fin dove arrivi tu, Mack» rispose lei timidamente.

Town era proprio felice di non aver sfoderato la battuta su Big Mack. Quella donna non era una storia da bar di una notte, lo sapeva, nel profondo del cuore. Magari ci aveva messo cinquant’anni a trovarla, ma finalmente l’aveva trovata: era lei, quella donna magica e selvaggia con i lunghi capelli scuri.

Per Town era sbocciato l’amore.

«Senti…» le disse quando arrivarono a Chattanooga. I tergicristallo dipingevano con la pioggia una macchia grigia al posto della città. «E se ti prendessi una camera in un motel, per questa notte? La pago io. Quando ho finito la consegna… possiamo fare un bel bagno caldo insieme, per cominciare. Riscaldarti un po’.»

«Mi sembra un’idea meravigliosa» rispose Laura. «Che cosa devi consegnare?»

«Quel bastone» disse lui, e ridacchiò. «Sul sedile posteriore.»

«D’accordo» ribatté lei in tono ironico. «Non dirmi niente, se non vuoi, signor Mistero.»

Town era del parere che sarebbe stato meglio se lei avesse aspettato in macchina nel parcheggio di Rock City, mentre lui andava a consegnare il bastone. Imboccò la salita sotto la pioggia battente a cinquanta all’ora, con gli abbaglianti accesi. In fondo al parcheggio si fermò e spense il motore.

«Ehi, Mack, non mi abbracci nemmeno, prima di andare?» chiese lei con un sorriso.

«Ma sicuro» rispose il signor Town. L’abbracciò, e lei gli si rannicchiò contro il petto mentre la pioggia disegnava un complesso tatuaggio sul tetto della Ford Explorer. Lui inspirò l’odore dei capelli di Laura, qualcosa di vagamente sgradevole, sotto il profumo. Viaggiando ci si sporca sempre. Quel bagno, decise, era necessario a tutti e due. Si domandò se a Chattanooga non ci fosse un posto dove comprare le perle da bagno alla lavanda per cui andava pazza la sua prima moglie. Laura alzò la testa e gli accarezzò il collo.

«Mack… continuo a pensare a una cosa… non sei curioso di sapere cos’è successo ai tuoi amici? A Woody e Stone?»

«Sì» rispose lui avvicinando le labbra a quelle di lei per il loro primo bacio. «Certo che sono curioso.»

Così Laura glielo mostrò.

Shadow camminò intorno all’albero, piano piano, disegnando cerchi sempre più grandi. Ogni tanto si fermava a raccogliere qualcosa nel prato: un fiore o una foglia, un sassolino, un rametto o un filo d’erba. Lo esaminava con attenzione, concentrandosi completamente sulla natura legnosa del legno, su quella fogliacea della foglia.

Easter pensò che aveva lo sguardo dei neonati quando cominciano a mettere a fuoco.

Non osava rivolgergli la parola. Le sarebbe sembrato sacrilego. Continuò a osservarlo, benché esausta, e a interrogarsi.

A poco più di sei metri dall’albero, seminascosto dalle erbacce e dai rampicanti morti, Shadow trovò un sacco di juta. Lo prese, ne disfece i nodi, allentò il cordino che lo chiudeva.

Gli indumenti erano i suoi. Vecchi, ma ancora utilizzabili. Rigirò le scarpe tra le mani. Accarezzò la camicia di cotone, il maglione di lana, fissandoli da una distanza di milioni di anni.

Li indossò a uno a uno.

Infilò le mani in tasca e fu con aria perplessa che estrasse qualcosa che secondo Easter era una biglia bianca e grigia.

Disse: «Niente monete». Erano le prime parole che pronunciava dopo ore.

«Monete?» gli fece eco Easter.

Lui scosse la testa. «Mi tenevano le mani occupate.» Si chinò per mettersi le scarpe.

Una volta vestito aveva un’aria più normale. Grave, però. Easter si chiese quanto fosse andato lontano, e quanto gli fosse costato il ritorno. Non era il primo che riportava indietro, e sapeva che nel giro di poco tempo quello sguardo vecchio di milioni d’anni, carico dei ricordi e dei sogni riportati dall’albero, sarebbe stato cancellato dal contatto con il mondo materiale. Succedeva sempre così.

Lo condusse in fondo al prato dove la creatura che l’aveva portata fin là aspettava tra gli alberi.

«Non può trasportare tutti e due» gli disse. «Io torno a casa da sola.»

Shadow annuì. Sembrava che si stesse sforzando di ricordare qualcosa. Poi aprì la bocca e lanciò un grido di benvenuto e di gioia.

L’uccello del tuono aprì il suo becco crudele e ricambiò il benvenuto.

Sembrava un condor, a un’occhiata superficiale. Le piume nere avevano una sfumatura violacea, il collo era bianco. Il becco era nero, tremendo: un becco da rapace, fatto per lacerare. A riposo, fermo a terra con le ali ripiegate, era grande come un orso bruno, con la testa arrivava all’altezza della testa di Shadow.